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Il counseling onco-genetico e l'importanza del supporto psicologico

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counseling oncologico e supporto psicologicoLa comunicazione del rischio di malattia onco-genetica determina una maggiore ansia, depressione, distress e pensieri negativi circa la possibilità di ammalarsi di cancro in futuro.

Lo stile di coping svolge pertanto un ruolo da intermediario tra lo stress percepito e le reazioni psicologiche; questo determina nei pazienti un livello più alto di emozioni negative e disagio psicologico, come conseguenza di uno stile di coping disadattivo, che aumenta l'angoscia connessa alla probabilità e al rischio di malattia.

Il termine  counseling  come sinonimo di “relazione d’aiuto” è oggi spesso utilizzato all’interno di diversi campi e settori, più in particolare nelle professioni psicopedagogiche.
Da un punto di vista storico, nasce e si sviluppa in America intorno gli anni ’40 grazie agli studi e ricerche svolte da Carl Rogers.

Tali attività di ricerca portarono Rogers alla pubblicazione del testo “Client – Centered Therapy” (1951), all’interno del quale l’autore concentrò la propria attenzione su quegli atteggiamenti, utili al terapeuta, alla comprensione del mondo del cliente, e tali da attivare quella profonda dimensione empatica dei suoi vissuti e delle sue difficoltà.
Nella sua matrice originaria, il counseling rappresenta pertanto un approccio della psicologia umanistica, con delle basi teoriche, ma anche una prassi educativa oggi ampiamente sviluppata nel settore di quelle professioni inerenti la relazione d’aiuto.  

In Italia lo sviluppo del counseling è avvenuto in ritardo rispetto ai paesi anglosassoni, e si è rivelato di grande importanza per la gestione dei problemi derivanti dalle ripercussioni negative che l’AIDS ha provocato sulla psicologia del singolo così come dei suoi familiari.

Tutto questo ha determinato l’impegno a realizzare corsi centrati sul counseling che hanno coinvolto operatori appartenenti a diverse aree professionali, quali medici, psicologi, assistenti sociali, infermieri, etc.

Prefigurandosi pertanto come relazione d’aiuto, è bene sottolineare, che quando le persone chiedono aiuto è perché attraversano momenti di vita particolari che possono essere definiti come critici; il counseling rientra così in quelle aree dell’aiuto,  il cui obiettivo è quello di accompagnare o aiutare le persone ad aiutarsi, durante quei momenti critici dell’esistenza che determinano uno sconvolgimento o modificazione dell’equilibrio precedentemente esistente.

Tale caratteristica fa sì che l’area dell’aiuto si distingua da quella della psicoterapia, il cui aspetto principe è quello invece di delineare un trattamento sugli aspetti psicopatologici della crisi, che a loro volta determinano una modificazione di uno stato di compenso che necessita pertanto di un intervento specifico.

A tal proposito, è bene precisare che il counseling rientra in quelle professioni che “implicano l’aiuto” e cioè che non hanno come obiettivo primario quello di fornire un intervento di aiuto psicologico, ma uno strumento di lavoro aspecifico sulla condizione di sofferenza, confusione, disabilità attraverso il rapporto con un’altra persona.
Il counseling appare pertanto connesso alla promozione del benessere e della salute psico-fisica, rientrando così nell’area della prevenzione primaria.

Il counseling e il contesto sanitario

Come sottolineato precedentemente, il counseling come specifica forma d’intervento basata sull’aiuto, fa il suo ingresso nel panorama sociale e sanitario agli inizi del ‘900 negli Stati Uniti, grazie ai contributi di Carl Rogers (1970-1971) e di Rollo May (1989), che fu l’autore del primo testo pubblicato in America sul counseling intitolato “L’arte del counseling”.

Attraverso le revisioni e innovazioni teoriche che si sono succedute negli anni, oggi il counseling può essere considerato come una forma di relazione d’aiuto che ha come obiettivo quello di facilitare le capacità decisionali della persona, attivando quelle risorse personali che ognuno possiede e che gli consentono di poter trovare una soluzione al problema.

Tale metodologia è quindi finalizzata a promuovere un cambiamento attraverso una relazione umana e professionale basata sul “qui e ora”, aiutando il cliente a trovare in modo autonomo soluzioni e strategie più soddisfacenti di quelle adottate fino a quel momento.

Le finalità del counseling possono essere quindi individuate nel promuovere lo sviluppo e la crescita della persona all’interno di una relazione che tenga conto della dimensione psicologica ed esistenziale nel corso di un tempo definito.

Non esiste un campo di attività specifico per il counseling, in quanto può essere applicato ai più svariati contesti: in ambito privato, non solo individuale, ma anche di coppia e familiare; comunitario, come quello scolastico, religioso, universitario; lavorativo, aziendale e socio-sanitario; socio-assistenziale, come il settore medico, ospedaliero e di disagio in genere.

In particolare, all’interno di comunità come ospedali, scuole e aziende, il counseling mira da un lato a risolvere nel singolo il conflitto esistenziale o il disagio emotivo che ne compromettono un’espressione piena e creativa, dall’altro può inserirsi come elemento facilitante tra la struttura e il dipendente.  

Pertanto, la crescente diffusione del counseling all’interno del contesto sanitario è dovuta sia al bisogno di un ascolto attento da parte dei pazienti che si trovano a confrontarsi con l’evento-malattia, e sia al peso di pressanti e complesse richieste, difficilmente esaudibili a volte, che i professionisti avvertono.

L’applicazione del counseling in tale contesto, permette quindi l’instaurarsi di un clima cordiale e di accoglienza incondizionata, il cui obiettivo è quello di aiutare la persona a prendere consapevolezza delle dinamiche interne che sostengono quei comportamenti inerenti  al tema della salute e parallelamente ad operare provvedimenti finalizzati alla correzione di quelli disfunzionali.

L’esigenza di inserire un counselor all’interno delle unità operative socio-sanitarie, è connessa spesso a un senso di smarrimento e poca comprensione da parte dei medici verso i pazienti, in quanto esclusivamente focalizzati sulla patologia e sulle cause della stessa.

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Se la relazione terapeutica vacilla, decade la compliance e la persona disinveste le proprie energie nei procedimenti di cura e le prescrizioni farmacologiche; il counseling può così aiutare il paziente nel disagio emozionale e motivarlo alla partecipazione e, proponendo un dialogo, lo rende un partecipe responsabile che accelera e stabilizza il processo di guarigione.

In ambito sanitario, il counseling si pone quindi l’obiettivo di attivare processi motivazionali funzionali al mantenimento\accrescimento del benessere, affrontare in modo attivo i problemi di salute o difficoltà riguardanti la modifica del comportamento a rischio per la salute, affrontare situazioni di salute complesse che possono offuscare le risorse necessarie per affrontare e per reagire alle difficoltà.

In un contesto come quello ospedaliero, l’importanza di un servizio di counseling attivo si presenta come un approccio di supporto per quelle persone che si trovano coinvolte all’interno di un processo legato alla malattia e all’ospedalizzazione.

Al di là del problema fisico, qualunque tipo di malattia coinvolge la persona in un processo esistenziale nel quale l’individuo prova e vive una serie di situazioni che provocano in lui stati emotivi intensi e stressanti.

Da qui l’esigenza di tracciare e delineare quei settori di intervento del counseling, in particolare in relazione a decisioni importanti da prendere o a particolari stati emotivi di cui prendere coscienza al fine di non causare nei soggetti delle ricadute negative a livello comportamentale.

A tal proposito il counseling oncologico assume particolare rilievo, in quanto le diverse fasi della malattia possono richiedere un intervento di counseling: con una certa frequenza l’accettazione della malattia terminale avviene dopo una fase iniziale di negazione e rabbia.

Il counselor può pertanto facilitare questo processo tenendo ben presente la necessità di modalità supportive nei confronti del paziente e l’importanza della disponibilità nei confronti dei familiari e dello stesso personale medico, da sostenere nell’accettazione della realtà della malattia terminale e delle sue implicazioni.

Il counseling onco-genetico

La Psico-oncologia, negli ultimi anni, ha acquisito una precisa identità culturale, scientifica e metodologica andando a definire più precisamente gli obiettivi di intervento, le metodiche utilizzate e i modelli organizzativi dei Servizi degli Ospedali Generali.

L’insieme delle competenze cliniche e di ricerca aventi come aree principali di interesse la dimensione psicologica del cancro, si sono delineate su due filoni distinti: il primo, identificato come area psicosociale, ha sviluppato linee di ricerca sulle risposte psicologiche alla malattia e alle terapie da parte del paziente, dei familiari e dell’èquipe curante.

Il secondo, identificato come area psicobiologica, ha studiato l’influenza dei fattori psicobiologici e comportamentali sul rischio di malattia e sulla sopravvivenza dei pazienti con diagnosi di cancro.

Per valutare l’efficacia e l’utilizzo del counseling onco-genetico all’interno del contesto sanitario, è bene comprendere quali sono le cause che predispongono un organismo a sviluppare il tumore.

Molto brevemente, la proliferazione incontrollata delle cellule dipende da alterazioni genetiche, dette mutazioni.

Alcune di queste sono ereditarie, ma altre sono provocate da fattori esterni, quali schemi comportamentali e fattori ambientali.

Dall'inizio degli anni Ottanta le ricerche sull'origine del cancro nell'uomo sono state principalmente volte all'identificazione e all'analisi funzionale degli oncogeni e dei geni soppressori tumorali.
Queste ricerche hanno fornito dati decisivi a favore della base genetica del cancro, permettendo di formulare teorie sulla sua insorgenza e progressione, sulla sua origine monoclonale, sull'espansione clonale di popolazioni di cellule tumorali e sui meccanismi cromosomici degli eventi mutazionali.

L'identificazione delle funzioni di questi geni ha ampliato le conoscenze sulle alterazioni specifiche del cancro nella regolazione della crescita e della divisione cellulare, nonché sui meccanismi con cui le cellule tumorali interagiscono con le cellule normali.

Nella pratica clinica si sono diffusi metodi diagnostici e prognostici, risultati tangibili di queste scoperte; si stanno infatti allestendo appropriate strategie di intervento soprattutto nei riguardi di famiglie che presentano storie di predisposizione genetica al cancro e si stanno attivamente perseguendo terapie mirate a specifiche lesioni genetiche.

A partire da tali premesse, verranno ora presi in considerazioni gli aspetti psicologici del counseling genetico per il tumore ereditario della mammella, o anche conosciuto come carcinoma mammario.

In tale contesto, i tumori ereditari costituiscono il 5-10% di tutti i tumori e determinano una mutazione a carico dei geni di predisposizione che conferisce un’aumentata probabilità allo sviluppo di patologie neoplastiche.

I geni responsabili di una maggiore suscettibilità a sviluppare un tumore della mammella e\o ovaio sono: il gene BRCA1 (Breast Cancer 1) posto sul cromosoma 17 e il gene BRCA 2 (Breast Cancer 2), posto sul cromosoma 13.

Tali mutazioni si manifestano nel 75% delle famiglie con tumore della mammella e dell’ovaio trasmesso con modalità dominante; negli Stati uniti, tali mutazioni sono presenti nel 5-10% di tutte le neoplasie mammarie ed ovariche.

La componente eredo-familiare e il corrispettivo rischio oncologico richiedono quindi una gestione assistenziale specifica e diversificata rispetto a quella dei tumori sporadici, in quanto, la possibilità di identificazione dei portatori di tali alterazioni genetiche o, il valutare attentamente il profilo di rischio dei soggetti che presentano familiarità con questo tipo di neoplasie ha importanti ripercussioni sul piano clinico.

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Pertanto, l’identificazione di geni responsabili di un’aumentata suscettibilità ereditaria allo sviluppo di neoplasie, ha aperto nuovi scenari nell’ambito della prevenzione, della diagnosi e  della gestione di queste forme tumorali, tali da far emergere la necessità di servizi clinici ad hoc (Cancer Family Clinic).

All’interno di tali servizi sono presenti èquipe multidisciplinari integrate composte da oncologi, genetisti e psicologi con competenze atte a fornire un servizio di counseling genetico specifico per il setting oncologico.

La Commissione dell’American  Society of Human Genetics (Ad hoc Committee on Genetic Counseling, 1975), ha definito il counseling relativo a patologie oncologiche ereditarie come un “processo comunicativo inerente ai problemi umani correlati all’occorrenza, o al rischio di ricorrenza, di una malattia genetica in una famiglia, che coinvolge professionisti esperti nel settore dei tumori eredo-familiari e una o più persone di una famiglia che si ritengono a rischio di tumore”.

Nello specifico la consulenza genetica è definita come “la pratica di assistenza e consulenza che accompagna la ricerca di informazioni genetiche prognostiche e diagnostiche, il cui scopo è principalmente il miglioramento della capacità del paziente di comprendere la natura delle informazioni oggetto dei test (o screening) genetico e di gestire le possibili implicazioni delle informazioni per la propria salute e per le proprie scelte”.

È sempre auspicabile, infatti, che la diagnosi genetica si articoli in un processo di almeno tre fasi: una fase di informazione-preparazione al test; una fase centrale e tecnica di attività di laboratorio; una fase successiva al test, orientata alla comunicazione, interpretazione e supporto psicologico.

Pertanto, la prestazione in ambito genetico non può ridursi esclusivamente al momento laboratoristico, ma è necessario che essa si concentri su quel complesso processo relazionale tra medico e paziente che, dalla proposta di esecuzione del test genetico, sino alla comunicazione dei risultati dell’indagine eseguita, assicuri all’interessato un’informazione adeguata in relazione alla natura del test proposto, alla natura della patologia e al rischio di trasmissione della stessa, ai tempi e alle modalità di esecuzione dell’indagine, alla valenza e al significato da attribuire ai risultati, alle modalità di comunicazione degli stessi, e alle modalità infine di conservazione e accesso ai dati raccolti, ai sensi della disciplina per la protezione dei dati personali .

Elementi critici della consulenza genetica e valutazione del rischio di cancro


La valutazione del rischio genetico del cancro prevede l’identificazione  di quegli individui  con una storia personale e familiare  connessa  alla  malattia, che aiuta a determinare se  tali soggetti hanno una predisposizione  ereditaria al cancro.

Il processo di consulenza  genetica include le seguenti componenti: storia personale medica e familiare; valutazione  del  rischio di cancro; discussione dei possibili test genetici e implicazioni dei correlati biologici; consenso informato atto a garantire agli individui una comprensione dei benefici, dei rischi e dei limiti del test genetico; coordinamento dei test genetici; discussione dei risultati del test e raccomandazioni per quelli successivi, e strategie di riduzione del rischio; valutazione psicosociale; e infine un appropriato follow-up che consente di stilare eventuali risorse di supporto e ulteriori elementi che potrebbero divenire oggetto di ricerca.

La complessità e la multidimensionalità di questo processo  richiede pertanto lo sviluppo di un servizio di consulenza genetica oncologica qualificata, così come enunciato dalla Commission on Cancer (CoC) nel 2012, che ha delineato le caratteristiche del consulente come “un individuo con un bagaglio esperienziale e teorico in genetica, genetica oncologica, counseling, sindromi ereditarie neoplastiche tale da fornire una valutazione accurata del rischio e un’empatia sia verso il paziente che verso i suoi familiari” .

Da queste premesse, è facile comprendere come il bisogno della consulenza genetica deriva direttamente dalle peculiarità dell'informazione genetica che, comparata ad altre informazioni biomediche, ha caratteristiche che la differenziano in virtù del suo carattere predittivo, del gap, ossia il divario\scarto, tra la capacità di diagnosticare e di curare effettivamente un disordine genetico e infine una serie di complesse problematiche psicologiche, etiche e sociali che possono derivare dai test genetici.

Aspetti psicologici della counseling genetico

L'occorrenza, il rischio di occorrenza o di ricorrenza di un disordine di natura genetica, colpisce ad un livello intrapsichico il desiderio interno di stabilità personale, di controllo e “onnipotenza”, e ferisce i normali bisogni narcisistici della persona.

Si manifesta la cosiddetta “biographical distruption”, ossia rottura biografica, in cui viene meno il senso di identità personale in relazione alla comparsa di sentimenti che comprendono vergogna, senso di colpa, rabbia, tristezza che possono paralizzare la persona in una sorta di impotente passività e mancanza di speranza che prende il nome di Hopelessness.

Da un'analisi della letteratura, è emerso che circa il 25% degli individui che si sottopongono ad una consulenza genetica oncologica, esperiscono elevati livelli di stress, ansia e\o depressione; tuttavia all'interno degli stessi studi non vengono fornite informazioni dettagliate su queste specifiche problematiche psicosociali incontrate dai consultanti.

Da una recente review della letteratura è emerso che la maggioranza dei soggetti che si sottopongono ad una consulenza genetica non presentano elevati livelli di depressione, ansia e disagio significativo tali da assumere una certa rilevanza clinica.

Tuttavia, a seconda del tipo e della fase di valutazione, sono stati identificati quei fattori di rischio connessi ad un maggiore disagio psicosociale quali: scarso supporto sociale, giovane età, precedente diagnosi di cancro, esperienza di cancro in parenti stretti, stile di coping evitante e bassa auto-efficacia.

Questi risultati hanno suggerito la necessità di una revisione qualitativa dei suddetti studi per approfondire le specifiche problematiche psicosociali incontrate dai consultanti durante la consulenza onco-genetica.

L'identificazione di questi problemi può infatti facilitare la comunicazione e le modalità di gestione degli stessi durante la consulenza.
Eijzenga et al., attraverso una meta-analisi etnografica, hanno cercato di fornire una panoramica degli studi che hanno indagato problematiche psicosociali specifiche in soggetti sottoposti a consulenza onco-genetica.

Nonostante le differenze tra le caratteristiche dei campioni (uomini e donne, storia medica, tipo di neoplasia),  la metodologia utilizzata (interviste, focus group), e la tempistica della valutazione ( prima o dopo il test), sono stati segnalati diversi problemi e identificate sei tematiche principali: stile di coping annesso al rischio di cancro; problemi pratici; problemi correlati alla famiglia; problemi correlati ai figli; vivere con il cancro e infine il vissuto emozionale.

Rispetto allo stile di coping, sono state segnalate alcune strategie messe in atto per affrontare il rischio di cancro, come ad esempio una rivalutazione della propria vita e delle priorità successivamente alla consulenza genetica, un cambiamento dei comportamenti connessi allo stile di vita, e un focus orientato al presente.

Gli individui acquisiscono  infatti un senso di controllo quando vengono rassicurati circa la possibilità di accedere alle cure mediche, come attività di screening, o il continuo supporto da parte della clinica.

Nello stesso tempo i consultanti si trovano a dover far fronte a decisione importanti, quali sottoporsi o meno al test del DNA, se sottoporsi ad un  eventuale intervento chirurgico (profilassi) , e l'eventualità di avere altri figli.

I problemi pratici che sono emersi dalla review, riguardano le preoccupazioni circa l'accesso alle assicurazioni inerenti la salute o la vita e le preoccupazioni circa implicazioni negative dei risultati del test del DNA per l'occupazione lavorativa.

Inoltre, gli aspetti procedurali della consulenza genetica e del test, compreso un tempo di attesa di diversi mesi per conoscere i risultati del DNA, sono stati segnalati come pesanti e onerosi.

Anche i problemi connessi alla famiglia appaiono come stressanti per i consultanti, in particolare la comunicazione circa il risultato del test; spesso le reazioni dei familiari appaiono contrastanti: i consultati hanno infatti indicato di non sentirsi spesso capiti o supportati dal partner o dai membri della famiglia, mentre altri hanno avuto reazioni emotive intense, come un profondo senso di colpa nei confronti dei familiari .

A tal proposito, è stato evidenziato che c'è una stretta correlazione tra il risultato del test genetico e la comparsa di una reazione emotiva che può essere sia positiva che negativa.

Nei diversi articoli analizzati emergono spesso vissuti di stress, paura e preoccupazioni legate al cancro, shock e angoscia, rabbia, frustrazione, ansia, solitudine, sentimenti di perdita e incertezza verso il futuro.

In virtù di quanto sopra esposto, si evince come le reazioni emotive connesse ad una diagnosi genetica, possono essere molteplici e di forte intensità, ma spesso  i comportamenti messi in atto per mantenere lo stress a livelli minimi, rispondono ad una funzione difensiva che non permettono una loro effettiva esplorazione ed elaborazione.
Essendo attribuibile al DNA ed ai geni, e cioè alla biologica e intima costituzione dell'identità personale, la disfunzione genetica assume un carattere di permanenza ed immanenza, di inalterabilità ed incurabilità.

I meccanismi di difesa proiettivi utili a distanziare dal sé la minaccia della malattia e ad abbassare i livelli di ansia e angoscia connessi, in questo caso non sono funzionali, poiché non c'è una parte malata da circoscrivere, proprio perchè i geni sono strettamente connessi al Sè e all'identità personale.

Pertanto le malattie genetiche hanno spesso conseguenze psicologiche importanti, ed i loro correlati emotivi, dinamici e relazionali, possono essere distinti da tutti gli altri problemi medici.

La consulenza genetica in un'ottica di promozione della salute


Considerata la multidimensionalità della consulenza genetica, appare chiaro che una della fasi più complesse di tale processo sia la comunicazione del rischio di malattia, in quanto informare il paziente circa la probabilità di essere portatore di una mutazione genetica predisponente al cancro, può risultare difficile in termini di efficacia e comprensione.

L'effetto di tale comunicazione, come si è osservato precedentemente, può avere delle ripercussioni fisiche, sociali e psicologiche; gli stili di coping possono infatti influenzare gli stati emozionali degli individui, che a loro volta possono determinare una maggiore ansia, depressione e distress, in quanto la consapevolezza del rischio di malattia, genera pensieri negativi circa la possibilità di ammalarsi di cancro in futuro.

Lo stile di coping svolge pertanto un ruolo da intermediario tra lo stress percepito e le reazioni psicologiche; questo determina nei pazienti un livello più alto di emozioni negative e disagio psicologico, come conseguenza di uno stile di coping disadattivo, che aumenta l'angoscia connessa alla probabilità e al rischio di malattia.

È quindi auspicabile che i consulenti genetici, solitamente laureati in medicina, utilizzino competenze relazionali e comunicative acquisite dal counseling e dalla psicoterapia, al fine di stabilire con i clienti un rapporto basato sul reciproco rispetto e fiducia, assisterli e rafforzarli attraverso l'informazione e la relazione partecipe; una particolare attenzione è data dalla necessità di  introdurre una supervisione dei consulenti genetici, sia per le abilità di counseling nella relazione che per la gestione del controtransfert, aspetti trascurati e negletti nella formazione medica.

A tal proposito, è utile introdurre la nuova definizione proposta durante la XXVesima Conferenza Annuale dei Genetic Counsellors (Phoenix, Arizona, Novembre 2002), che recita testualmente:
“ la consulenza genetica è un processo psicoeducazionale dinamico fondato sull'informazione genetica. All'interno di una cornice di relazione terapeutica stabilita tra chi la fornisce ed i clienti, i clienti sono aiutati a personalizzare l'informazione genetica tecnica e probabilistica, promuovere l'autonomia decisionale e ad accrescere la capacità di adattarsi nel tempo. L'obiettivo è facilitare la capacità dei clienti ad utilizzare l'informazione genetica in modo personalmente significativo, che riduca lo stress psicologico e aumenti il senso di controllo personale. Questa definizione ha basi nel suo background teorico e si rivolge alla cura di clienti visti per una varietà di differenti indicazioni entro una serie di differenti specialità da parte di professionisti adeguatamente preparati” (Biesecker & Peters, 2002).

L'intervento psicologico in ambito oncogenetico può quindi facilitare l'adattamento alla condizione di rischio, la gestione dell'impatto dei risultati del test e l'eventuale adesione a programmi di gestione del rischio; in tal senso lo psicologo, presenziando durante tutte le fasi della consulenza genetica, può facilitare il processo di comunicazione consulente-consultante, effettuare una valutazione psicologica del consultante attraverso il colloquio clinico, fornire supporto psicologico sia al consultante che ai familiari, fornire consulenza al medico su quel determinato consultante e partecipare alle riunioni d'èquipe, nonché alle discussioni dei casi clinici.

Conclusioni

La possibilità di avere una predisposizione genetica a sviluppare il cancro o la richiesta di una consulenza genetica, può determinare negli individui ansia ed un vissuto emotivo che va direttamente ad influenzare le scelte di vita, così come gli stili comportamentali.

Dall'analisi della letteratura che è stata condotta, si evince quanto una corretta informazione e comunicazione da parte degli esperti possa diminuire tali paure e percezioni errate rispetto al rischio di malattia.

La conoscenza del reale rischio individuale (rischio familiare, risultato del test genetico, storia personale di cancro) la presenta di un'èquipe di professionisti, e la possibilità di accedere a programmi di screening consente ai pazienti di essere meno ansiosi circa il proprio stato di salute e di affrontare tale situazione con la consapevolezza che stanno facendo il possibile per badare a se stessi, grazie anche al supporto di un'èquipe specializzata.

I professionisti coinvolti devono pertanto prestare particolare attenzione all'impatto emotivo di un eventuale risultato positivo del test genetico, in quanto l'impatto psicologico potrebbe rivelarsi duraturo non soltanto per il paziente ma anche per la propria famiglia.

In virtù di tali considerazioni, occorrerebbe dunque, che il medico fosse affiancato da un altro professionista al fine di garantire lo strutturarsi di una relazione più consona a costituire un dialogo con la persona che decide di sottoporsi alla consulenza genetica.

Sarebbe pertanto auspicabile un modello psicologico-sociale di consulenza genetica, in cui si miri a migliorare l'ascolto e la comunicazione, piuttosto che l' “insegnamento” (Rogers, 1978).

In Italia continua ad essere rara la collaborazione genetista-psicologo, così come non esiste ancora una figura specifica che si occupa di consulenza genetica.
Nella prassi quotidiana, infatti, gli aspetti psicologici e sociali legati all'ereditarietà sono spesso trascurati o affrontati da professionisti senza una specifica formazione in materia. Pertanto, si conclude sottolineando che di una formazione specifica è fortemente avvertita sia la mancanza che, soprattutto, l'esigenza.

 

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(Traduzione e adattamento a cura della Dottoressa Giorgia Lauro)

 


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