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Il gioco e l'ascolto del disagio infantile: i gioco-laboratori di ascolto

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gioco e ascolto del disagioNegli ultimi anni la nostra società ha maturato una maggiore coscienza della diffusione di maltrattamenti, abusi sessuali e psicologici sui bambini, soprattutto in ambito intrafamiliare, e si è interrogata sui modi più efficaci per riconoscere precocemente condizioni di disagio e di abuso, che, a ogni modo, ancora oggi, restano spesso nascosti, per emergere solo quando guadagnano un posto nella cronaca nera.

Proprio dal racconto che la cronaca ci presenta di maltrattamenti e di abusi si evidenzia la difficoltà degli adulti nell’individuare precocemente i segnali della sofferenza, spesso inascoltata o sottovalutata, dei bambini.

Per agire tempestivamente e interrompere all’origine la spirale dei maltrattamenti e degli abusi, diventa, quindi, urgente che gli adulti coltivino la loro capacità di ascolto della sofferenza emotiva dei bambini, diventando consapevoli che questa sofferenza può essere originata non solo da maltrattamenti e abusi eclatanti, ma anche dalla mancanza di attenzione e di affetto, dalla solitudine affettiva, da situazioni di disagio familiare, difficoltà nell’apprendimento, incapacità di adattamento alla vita sociale, isolamento.

Soprattutto bisogna imparare a parlare il linguaggio dei bambini che è il linguaggio del gioco, il loro modo naturale di esprimersi. Per imparare ad ascoltare quel che spesso col gioco ci dicono o tentano di dirci. Perché col gioco i bambini dicono quel che con le parole non sanno esprimere. Il gioco è, come diceva Melanie Klein, la via regia all’inconscio dei bambini.

Il gioco nello sviluppo intellettivo ed affettivo del bambino

Sull’importanza del gioco nello sviluppo affettivo e intellettivo del bambino sono stati presentati molti e stimolanti interventi.
I bambini giocano. Dire che i bambini giocano è come dire che il cielo è azzurro. Ovvio, banale, difficile che ci si soffermi a riflettere. I bambini giocano, probabilmente da quando esiste il mondo.

Che cosa potremmo trovare, dunque, di meglio per comunicare con i nostri bambini? Giocando con loro impariamo a capirli, a conoscerli, li scopriamo ogni volta di più. E scopriamo un po’ di più di noi stessi. Ma nella vita degli adulti non sempre c’è spazio per il gioco.

Bruno Munari, pittore, primo designer italiano, scrittore, creatore di libri per l'infanzia, sosteneva che “conservare l'infanzia dentro di sé vuol dire conservare la curiosità di conoscere, il piacere di capire, la voglia di comunicare”.

Ma è difficile conservare l’infanzia dentro di noi. Le nostre vite sono spesso luoghi affollati di cose inutili, inutili fardelli che appesantiscono i giorni. Siamo una società depressa e ansiosa. Il nostro sistema produttivo frammenta il lavoro, in modo che ognuno svolga ripetutamente le stesse azioni, anello di una catena di cui non conosce direttamente né l’inizio né la fine. Tutto ciò deresponsabilizza e non favorisce l’autostima.

Lasciati senza guida da una generazione di padri e di madri, che hanno tentato di scardinare i modelli familiari tradizionali e ci hanno lasciato il difficile compito di individuarne di nuovi, spesso abbiamo un’identità fragile, cui cerchiamo di dare una forma attraverso il possesso di beni. Siamo soli, e siamo soli con i nostri figli.

Le famiglie tradizionali allargate vanno sparendo, lasciando i genitori soli di fronte al loro compito di genitori. Le esigenze pratiche sono troppe e rubano spazio alla relazione, al tempo del gioco. I genitori hanno addosso tutta la responsabilità e diventano ansiosi, si sentono inadeguati e a volte in colpa. Non c’è spazio per il gioco. Non c’è spazio per giocare con i propri figli.

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E poi giocare con i bambini non è facile. Perché ci mette in contatto con la nostra infanzia, la va a ripescare, la recupera, e non sempre questo recupero ci rende felici, non sempre i ricordi della nostra infanzia ci fanno piacere.

E’ difficile trovare un adulto che sappia giocare. Ma giocare davvero. Nello stesso modo in cui giocano i bambini. Giocando solo per giocare. Perché il gioco è un’attività fine a se stessa. Il gioco non produce, non crea ricchezza materiale: il gioco, come dice Huizinga, impegna in maniera assoluta. E per che cosa poi?Per niente, è la prima risposta che può venire in mente a una società in cui tutto è monetizzato e misurato sulle possibilità produttive.

Ma si può imparare a giocare. O meglio, si può riscoprire la naturale capacità di giocare che è dentro di noi. Spazio. Bisogna fare spazio. Spazio alle emozioni, spazio a ciò che non produce.

Il gioco, per essere davvero gioco, deve essere spontaneo e soprattutto deve essere una sorta di passatempo.

L’atteggiamento del giocatore per professione, come dice Huizinga, non è più un vero e proprio atteggiamento ludico.

Nessuno può essere costretto a giocare, perché in quel caso il gioco perde di senso. Il gioco richiede l’intenzione di giocare. E si dovrebbe riflettere bene su questo nei diversi contesti istituzionali in cui si dice ai bambini: giocate!

Non è detto, comunque, che giocando si cresca. Bisogna essere disponibili a lasciarsi cambiare dal gioco, a evolvere.

Il gioco è un fenomeno articolato. Per poterne parlare bene bisognerebbe affrontare temi come la socializzazione, la formazione della cultura, il pensiero simbolico, la capacità di fare astrazione, la logica, le regole.

Che giocare non sia una banale e poco rilevante attività infantile è stato evidenziato anche da Huizinga (1938), che nella sua opera Homo Ludens, ha definito il gioco come fondamento di ogni cultura, evidenziando che anche gli animali giocano e che quindi il gioco esiste prima della cultura.

E’ stato Jean Piaget (1896-1980), psicologo ginevrino, la cui fama è legata soprattutto ai suoi studi sullo sviluppo cognitivo nell’età evolutiva, a riconoscere al gioco una responsabilità vitale nella maturazione dell’intelligenza.

Piaget ha individuato, infatti, nello sviluppo infantile una prima fase, caratterizzata dal gioco-percettivo motorio, un tipo di gioco non orientato socialmente (tra i 12 e i 18 mesi) e una seconda fase, caratterizzata dall’integrazione del gioco simbolico alle attività percettivo-motorie (dai 18 mesi ai cinque anni).
Mentre i giochi motori (afferrare gli oggetti, lanciarli lontano, sistemarli uno sull’altro) rafforzano nel bambino la sicurezza nelle sue possibilità di apportare piccoli cambiamenti alla realtà esterna, il gioco simbolico, in cui gli oggetti diventano simboli di altri oggetti, consentono al bambino di imparare la rappresentazione di eventi fantastici, di esercitare il linguaggio verbale, di scoprire quell’attività creativa che Piaget chiama fabulazione e che consiste nel piacere di ascoltare e di inventare fiabe.
Quando arriva intorno ai cinque anni il bambino scopre poi l’interazione nel gioco e intorno ai sette-otto anni conquista la capacità di giocare rispettando delle regole.
Nel 1967 un altro psicologo, Donald Winnicott, si è occupato del gioco, inserendolo tra quei fenomeni transizionali che aiutano il bambino, che ha beneficiato di buone cure materne, a emanciparsi in maniera non traumatica dalla dipendenza materna, imparando l’autonomia e conservando una certa fiducia in una realtà positiva che lo protegge.
Winnicott ha definito il gioco come un fenomeno transizionale che consente al bambino di situarsi in un’area di illusione che media tra il mondo interiore del bambino e il mondo esterno, dapprincipio percepito come un patrimonio diviso con la madre.
Sotto questo aspetto, sostiene Winnicott il gioco e gli oggetti transizionali (come peluche, coperte, sciarpe) danno al bambino un senso di sicurezza e lo aiutano nel controllo dell’angoscia.
Vorrei qui evidenziare come, anche sulla scorta di queste osservazioni, sia evidente che il gioco si situa in uno stato intermedio tra i vincoli posti dalla realtà esterna e le infinite possibilità offerte dalla creazione fantastica.
Il gioco è, quindi, una sorta di spazio intermedio tra una “realtà reale” e una “realtà immaginaria”.
Potremmo paragonare lo spazio del gioco a quello che Carli, parlando dello spazio analitico, definisce “spazio anzi”, intendendo una funzione della mente che consente il ripensamento delle categorie mentali in base alle quali la realtà è stata classificata.
Come dice Gregory Bateson “il gioco forza ogni categoria di cui disponiamo”.
Lo spazio del gioco, come lo “spazio anzi” consente, infatti, ai bambini e agli adulti, di mettere in discussione le categorie mentali che contengono la propria storia passata, permettendo quel che Carli definisce “apprendimento pedagogico”, laddove porta, grazie a una traduzione simbolica delle proprie emozioni a una riorganizzazione psichica del proprio universo emotivo.
Con il gioco, infatti, grazie alle sue regole pre-definite, è possibile trasgredire alle categorie mentali ereditate dalle figure genitoriali, per giungere a una ridefinizione del proprio modo personale di essere nel mondo e per vedere con occhi nuovi la propria storia passata.
Il gioco, da questo punto di vista, quindi, agevola una definizione della propria identità.

Il “fare finta” nel gioco, che può essere considerato una sorta di agire per prova, consente, inoltre, di mettere in scena esperienze non ancora reali ed educa a una capacità trasformativa dell’esperienza, grazie alla possibilità che offre di imitazione della realtà.
Col gioco, infatti, i bambini possono “far finta di” essere adulti, sperimentando questa condizione, senza doverne affrontarne i relativi fallimenti e le inevitabili sofferenze.

Per dirla con Bruner “il gioco offre un’eccellente opportunità per provare combinazioni di comportamenti che non sarebbero mai sperimentate sotto pressione funzionale” (Bruner, 1976) e offre "un modo per minimizzare le conseguenze delle azioni e quindi apprendere in una situazione meno rischiosa".
Il gioco, infine, educa al rispetto delle regole, al movimento da un universo di significati a un altro..

Un altro psicologo, il sovietico Lev Semenovic Vygotskji (1896-1934), autore di Linguaggio e pensiero (uscito postumo nel 1934) e di un’opera sul gioco e la sua funzione nello sviluppo psichico del bambino, si è occupato del gioco, centrando l’attenzione sull’importanza dei giochi intellettuali, motori individuali o sociomotori nell’evoluzione affettiva del bambino.
Vygotskij considera il gioco come un'attività fondamentale per lo sviluppo intellettivo e come il mezzo più adeguato per facilitare il processo di astrazione.
Sembra proprio che il romantico Richter avesse davvero ragione quando asseriva che il gioco è un’attività tremendamente seria.

I gioco-laboratori di ascolto

E’ da queste considerazioni sul gioco come strumento importante per l’evoluzione dell’intelligenza e dell’affettività del bambino, capace di offrire spunti per la messa in discussione dei modelli genitoriali e per la sperimentazione di esperienze, al riparo da conseguenze rischiose, che intendo partire per introdurre uno strumento di osservazione del disagio infantile che definisco gioco-laboratori di ascolto.
E’ il silenzio il fondamento del disagio, del maltrattamento e dell’abuso infantile. E’ il silenzio che permette che l’abuso abbia inizio, che l’abuso continui, che l’abuso non venga scoperto.
L’ascolto è il vero nemico dell’abuso, la capacità di ascoltare i segnali di disagio e di sofferenza, per poter mettere in atto interventi di protezione e di riparazione.
I gioco-laboratori, infatti, pensati come strumento di primo ascolto della sofferenza infantile, si fondano proprio sulla possibilità offerta dal gioco ai bambini di guardare criticamente i modelli familiari, provare delle esperienze nuove, e, in altri termini, riscrivere la propria storia personale, guardandola con altri occhi.
Questi aspetti del gioco sono molto importanti per lo sviluppo evolutivo del bambino, ma diventano fondamentali, a mio parere, per la crescita emotiva di bambini in condizioni di disagio o vittime di maltrattamenti e di abuso.

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Di solito, infatti, uno dei principali problemi legati alla denuncia, da parte delle piccole vittime, di abusi intrafamiliari, è proprio legato, oltre che, chiaramente a un complicato intreccio di paura, colpa, vergogna, impotenza, sensazione di essere stati traditi, odio e rabbia, all’impossibilità, da parte del bambino di contestare i propri modelli familiari.
Inoltre, ai bambini in condizioni di sofferenza emotiva il gioco offre la possibilità, oltre ché di ripetere, in una drammatica messa in scena, i traumi subiti, anche di far finta di essere qualcun altro e di identificarsi con le figure negativi che hanno provocato i traumi o con altre figure positive, nelle quali il bambino vorrebbe riconoscersi.
Se il gioco è essenziale per la crescita intellettiva ed emotiva di tutti i bambini, diventa vitale, come possibilità di catarsi, ma anche come strumento che rende possibile una ridefinizione delle categorie mentali e quindi della propria identità, segnata dal trauma, in bambini vittime di disagio, maltrattamento, abuso.
L’idea del laboratorio viene da Bruno Munari, che con i suoi Laboratori per la creatività infantile ha evidenziato, tra l’altro, la necessità di offrire ai bambini luoghi e materiali, con cui poter dare forma a quanto la loro fantasia concepisce.

Questa idea di offrire ai bambini spazi per il gioco e per la stimolazione della creatività, unita alla convinzione che il gioco introduca a spazi altrimenti inesplorabili della vita interiore del bambino e lasci emergere ansie, emozioni e paure, ha dato vita al progetto dei gioco-laboratori di ascolto.
I gioco-laboratori di ascolto si fondano sul gioco di gruppo, che consente, mediante processi di simbolizzazione affettiva delle relazioni, di far emergere conflitti e ansie sia nei contenuti fantastici sia nelle modalità di relazione con gli altri compagni del gruppo e permette ai bambini di riprodurre i modelli relazionali istituiti nella propria famiglia fantasmatica e l’elaborazione degli affetti legati a eventuali traumi.

Diceva Melanie Klein (1882-1960, la psicologa che per prima ha messo in luce l’importanza del gioco come via regia per accedere all’inconscio infantile, che il gioco per il bambino non è un semplice passatempo, ma il lavoro fondamentale, che gli consente di crescere, di alimentare il pensiero simbolico, di imparare a padroneggiare il mondo esterno e a dominare e mediare l’angoscia del proprio mondo interiore, mediante l’elaborazione dei conflitti e delle fantasie inconsce.

Melanine Klein ha dato un contributo fondamentale alla psicologia infantile, indicando nel gioco l’equivalente delle libere associazioni degli adulti.

In "Psicoanalisi dei bambini" (1932) sostiene che il gioco consente al bambino di proiettare all’esterno angoscia e conflitti e che quindi attraverso il gioco è possibile osservare le fantasie inconsce dei bambini e l'angoscia ad esse legata.

Già Freud aveva osservato che il gioco permette al bambino di rimettere in atto esperienze psichiche dolorose e di provare a riparare inconsciamente situazioni di sofferenza, lasciando emergere quanto c’è di “non digerito” nella sua storia emotiva.

Nel caso del piccolo Hans Freud ha, infatti, mostrato che i sogni, le fantasie e i giochi del suo piccolo paziente consistevano in ripetizione e in una drammatizzazione del conflitto edipico.

Nel 1920, poi, osservando un suo nipotino di diciotto mesi che giocava con un rocchetto, lanciandolo lontano, facendolo sparire sotto il letto, e accompagnando questo gioco con molte esclamazioni, Freud aveva dedotto che il gioco sembrasse una sorta di messa in scena di un’esperienza dolorosa del bambino, legata alle numerose partenze della madre.
Da ciò Freud ha ipotizzato che il bambino ripete più volte lo stesso gioco per trasformare un'esperienza dolorosa e frustrante (come l'assenza della madre), in un'esperienza controllabile, che gli permette di sopportare la separazione.

Freud ha quindi ricavato, da queste osservazioni che il gioco permette al bambino di riparare alle esperienze di sofferenza e che le paure e le ansie, ma anche l’aggressività e ogni altro impulso, presenti nella vita emotiva del bambino possono essere elaborate con il gioco, con una riduzione dell’ansia, che alla lunga può indurre trasformazioni patologiche di personalità.
I gioco-laboratori di ascolto mirano ad osservare la vita emotiva dei bambini, così come viene da questi elaborata nel gioco, allo scopo di gettare luce sull’origine delle loro ansie, paure, sensi di colpa e sui loro impulsi e desideri.

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Dall’osservazione del gioco possiamo trarre, infatti, importanti informazioni sulla vita emotiva del bambino, e anche sui suoi modelli familiari e più ampiamente relazionali, sulla rigidità di questi modelli interiorizzati, sulla capacità del bambino di “far finta di” e quindi di cimentarsi nella sperimentazione di esperienze ancora non provate, sulla ricchezza e sulla vivacità della sua vita emotiva, sul suo patrimonio di simboli e sulla sua capacità di pensare in astratto.
Con il gioco, infatti, il bambino può sperimentare le sue emozioni e le sue fantasie, soprattutto se assistito da materiali adeguati, oggetti che siano di piccole dimensioni, semplici e non meccanici e che offrano la possibilità di concepire le situazioni piú disparate, e se il gioco viene effettuato fuori della propria casa e lontano dalla propria famiglia.
Come afferma Melanie Klein, "Nel gioco i bambini riproducono simbolicamente fantasie, desideri, esperienze, e nel farlo si servono dello stesso linguaggio e della stessa forma di espressione arcaica e filogeneticamente acquisita che ci è ben nota nei sogni. Noi possiamo capire completamente ciò che i bambini esprimono con il gioco se lo affrontiamo col metodo elaborato da Freud per svelare i sogni."
I gioco-laboratori di ascolto costituiscono una sorta di stanza del gioco di gruppo, pensata specificamente in funzione dei bambini, in cui i bambini hanno a disposizione dei giocattoli che spaziano da casette, figure maschili e femminili di varie forme e misure, animali domestici e selvatici, accessori per costruire e materiali per manipolare.

Il compito dello psicologo-mediatore è esclusivamente valutativo: osserva il materiale prodotto dai bambini nelle interazioni di gioco, nella rappresentazione dei ruoli, nel gioco del “far finta”, per rilevarne il contenuto inconscio sottostante e individuare l’eventuale presenza di indicatori di disagio.

La ricchezza degli stati emotivi che possono essere espressi con il gioco è immensa: frustrazione, gelosia, sentimenti ambivalenti, angoscia legata a maltrattamenti e abusi sia fisici sia psicologici, senso di colpa e bisogno di riparazione.

Inoltre nel gioco infantile si trova la ripetizione di esperienze reali e di particolari della vita quotidiana, spesso tessuti con elementi fantastici.

Scopo dei gioco-laboratori di ascolto è l’ascolto del disagio del bambino, attraverso l’osservazione del suo gioco e delle sue modalità di relazione all’interno del gruppo di gioco, nell’intento di rompere quel muro di silenzio e di isolamento dietro di cui spesso i bambini nascondono dolorosi segreti.

Si tratta, in altre parole, di aiutare il bambino a dire l’indicibile attraverso il gioco, un linguaggio a lui più consono, e a denunciare quella sofferenza e a volte quegli abusi che non riesce a dire a parole.

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Definisco mediatore lo psicologo conduttore dei gioco-laboratori di ascolto, in quanto il suo ruolo consiste nel mediare il gioco con un atteggiamento molto empatico, fornendo un ambiente accogliente e contenitivo, senza andare a scardinare le difese del bambino, osservando quel che emerge dal gioco stesso, senza intervenire con interpretazioni o tentativi di indurre il bambino a verbalizzazioni.

Il mediatore deve essere pronto a mediare rivelazioni emotivamente forti, senza affrontarle all’interno dei gioco-laboratori, ma solo in un momento successivo, in colloqui individuali, più adeguati ad aiutare il bambino a tradurre in parole la sua sofferenza.

I gioco-laboratori, infatti, si propongono essenzialmente lo scopo di individuare precocemente eventuali indicatori di disagio, maltrattamento o abuso, senza ricorre a penosi “interrogatori”, che spesso possono assumere per i piccoli, l’aspetto di un ulteriore abuso.

Il ruolo del mediatore è di osservare, evitando ogni intervento che possa risultare suggestivo, ma anche evitando ogni interpretazione, perché i gioco-laboratori non si propongono uno scopo terapeutico, ma solo un intento di primo ascolto, se per prima ascolto non si voglia intendere il primo passo di un percorso terapeutico.

I gioco-laboratori vanno chiaramente inseriti in più ampie iniziative di prevenzione del disagio infantile.

Questi momenti di gioco possono essere seguiti da alcuni colloqui di restituzione con i familiari e si prestano ad essere utilizzati all’interno di progetti d’intervento specifici a tutela dei minori, da parte dei servizi sociosanitari che operano a favore dei bambini e delle loro famiglie.

I gioco-laboratori di ascolto non si prestano soltanto all’ascolto di bambini in situazioni di rischio di emarginazione sociale, sofferenza emotiva, maltrattamento o abuso, ma possono essere utilizzati anche per sostenere una più attenta tutela di tutto l’universo infantile, individuando sofferenza e disagio per intervenire precocemente, prevenendo l’aggravarsi o il cronicizzarsi di situazioni difficili.

Ogni gioco-laboratorio di ascolto produrrà un resoconto conclusivo del mediatore, che conterrà l’indicazione di eventuali indicatori di disagio, di sofferenza emotiva, nei bambini coinvolti.

Sulla base di questo resoconto si valuterà la necessità di ulteriori interventi con gioco-laboratori di ascolto, per approfondire problematiche legate a uno o più bambini, di interventi individuali a scopo diagnostico, di invio ai servizi territoriali e di segnalazione agli organi giudiziari, in caso di sospetto di maltrattamenti e di abusi.

 

Bibliografia

  • Sigmund Freud, La psicoanalisi infantile
  • Donald Winnicott, Gioco e realtà
  • Johan Huizinga, Homo Ludens
  • Jean Piaget, Il giudizio morale nel fanciullo
  • C. Foti, C. Roccia, M. Rostagno, C’era un bambino che non era ascoltato. L’ascolto nella comunicazione, nella tutela, nella cura del minore, Centro Studi Hansel e Gretel di Torino
  • Claudio Foti, a cura di, Chi educa chi?: sofferenza minorile e relazione educativa , Milano-Unicopli
  • Gianni Rodari, Grammatica della fantasia 1992
  • Bruno Munari, Il laboratorio per bambini a Brera
  • Bruno Munari, Laboratorio giocare con l’arte, quaderni 1-9, Museo internazionale delle Ceramiche Faeinza, Faenza 1983-1994
  • Beba Restelli, Giocare con tatto Maria Montessori, La scoperta del bambino

 

(Articolo a cura della Dott.ssa Carmen Pernicola - Roma)

 

 


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Tags: abuso gioco gioco infantile

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