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L'incubo della violenza all'infanzia: un problema rimosso

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La storia dell’infanzia è storia di abusi nei confronti dei minori, le punizioni corporali rientravano nella pratica educativa consolidata; abbandono e infanticidio erano strumenti legittimi per risolvere problemi sociali e demografici.

infanzia

Attualmente la violenza contro l’infanzia è riprovata da tutti, i minori sono persone con caratteristiche e bisogni da rispettare e soddisfare. La legislazione riconosce loro diritti specifici, ma ciò non impedisce che vi siano ancora situazioni a rischio per l’integrità fisica e psichica dei ragazzi, che possono continuare ad essere vittime di violenze e sfruttamenti.

Col termine maltrattamento s’intende definire tutto quello che impedisce il benessere del bambino, dalle lesioni fisiche, agli abusi sessuali e psicologici, dall’abbandono, alla malnutrizione o negligenza. Si riferisce sia a comportamenti che ledono direttamente il fisico, come ustioni, fratture, ferite, etc., sia a comportamenti di trascuratezza, quali mancanza di cure, carenza di igiene, e a tutte quelle forme che rientrano nel maltrattamento psicologico

La coscienza collettiva condanna con indignazione l’uso di pratiche violente nei riguardi dell’infanzia e ritiene che tali comportamenti siano riferibili a individui facilmente identificabili, quali malati mentali, nomadi, immigrati, disadattati sociali o “mostri”. Invece episodi di abuso sono rintracciabili in famiglie appartenenti ad ogni classe sociale, gruppo etnico o religioso.

Ugualmente non vi sono differenze geografiche rilevabili tra nord, centro e sud Italia, nonché con l’estero; così come non esistono confini temporali, vale a dire giorni, mesi o periodi particolari che favoriscono lo scatenarsi di questi comportamenti; cambiano forse le modalità d’uso, le motivazioni, le problematiche, ma non i meccanismi. Tali affermazioni trovano conferma su una ricerca effettuata su un quotidiano fiorentino che esamina i casi comparsi nel periodo che va dal 1970 al 1989 prendendo in considerazione diverse tipologie: 1)l’ omicidio-suicidio,2) il maltrattamento psicologico,3)l’omicidio, 4) l’abbandono, 5)il maltrattamento fisico,6 )la violenza di un minore su un consanguineo,7)la violenza sessuale,8) l’ infanticidio,9) lesituazioni d’indigenza,10)la vendita di neonati e non ,11) lo sfruttamento .

Nella voce “maltrattamento psicologico” sono stati inseriti tutti quei casi di affidi contesi e adozioni legali poiché compromettono in ogni caso il benessere del bambino.

I casi esaminati sono 1084 distribuiti in tutta Italia. Il numero più elevato di maltrattamenti si registra al Nord. La variabile che riguardava l’omicidio-suicidio e il rapporto luogo-tipologia risulta con un’incidenza che corrisponde a 67 casi al Nord, 30 al Centro, 24 al Sud, 11 nelle Isole, 4 all’estero.

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Appena sensibile il primato del Nord in questa tipologia ,per le altre variabili la differenza si riduce ulteriormente; gli studi sociali affermano che il fenomeno è maggiormente sviluppato nelle zone industrializzate e sembrano avvalorati anche da queste statistiche.

Se inoltre consideriamo la maggiore vastità geografica, la densità ,e l’immigrazione con le sue conseguenze avvalorano ancor più la tesi che la soppressione della vita del minore, non ha confini geografici o culturali.

Rimane però difficile formulare statistiche ufficiali sull’entità del fenomeno, in quanto i casi che vengono denunciati sono quelli più gravi, mentre rimangono di solito sommersi quelli di minore entità, anche se ugualmente compromettenti per lo sviluppo psicologico e fisico del minore. Può accadere che non siano riconosciuti nemmeno quando giungono all’ospedale. Lesioni contusive o fratture vengono attribuite a cadute accidentali, ustioni da sigaretta sono denunciate come involontarie, risultati di giochi troppo violenti. Operare una diagnosi corretta non è facile in quanto il bambino non parla o perché troppo piccolo o perché non ha il coraggio di accusare il genitore che rappresenta l’autorità; il coniuge non denuncia il pari; il medico ha difficoltà a credere che un genitore possa aver procurato lesioni molto gravi.

I genitori quando arrivano nella struttura si mostrano attenti e affettuosi nei riguardi del figlio precedentemente picchiato, il quale a sua volta risponde bene a colui che gli ha procurato dolore e paura.

L’episodio di maltrattamento fisico non è premeditato e di solito è seguito da un profondo senso di colpa. Si può scatenare all’apice di una crisi, magari provocata da un motivo futile, quale pianto, rifiuto di alimentarsi, un litigio tra la coppia.

Il pianto persistente è angoscioso, rende impotenti se non si riesce ad intervenire, soprattutto viene vissuto come un atto di accusa, come un non essere una “buona madre” o un “buon padre”, perché non in grado di risolvere i problemi del piccolo. E’ proprio questo desiderio di essere perfetti che sovente scatena episodi di collera in seguito a determinati comportamenti del figlio. Appena la rabbia immediata si è sfogata questi genitori tornano ad essere amorevoli e premurosi, perciò è difficile pensare che siano stati loro a commettere tali atti.

In genere è uno solo il genitore che maltratta, ma l’altro è complice della situazione, o addirittura è colui che provoca il conflitto. Questi non aiuta il compagno, nè fa niente per denunciarlo al di fuori dell’ambito domestico, o chiedere l’aiuto di persone competenti [Ammaniti, Matassi, Salmè, Torino, 1981, 24 - 25].

Ma chi è il genitore maltrattante? Tra le poche generalizzazioni possibili vi è quella che ad avere comportamenti violenti è la persona che ha un contatto più assiduo con i figli, per questo è statisticamente superiore il numero delle madri maltrattanti, ma i dati si ribaltano nei casi in cui il padre rimane più a lungo con la prole. L’unica variabile che appare costante è l’immaturità parentale e una difficoltà ad instaurare un rapporto soddisfacente tra genitore e figlio, inadeguatezza che può portare verso comportamenti negativi.

Studi autorevoli hanno teso a provare che i soggetti che hanno subito tristi esperienze di deprivazione e abuso sono a loro volta genitori maltrattanti. Episodi di maltrattamento, apparentemente inspiegabili, trovano origine in comportamenti appresi inconsciamente durante l’infanzia, che nella loro negatività hanno lasciato un’immagine profonda nella psiche dell’individuo e tendono a esplodere in situazioni di crisi. Vi è alle spalle un vissuto di sofferenze che nessuno aiuta ad elaborare, ma che impedisce di rapportarsi adeguatamente al figlio. Gli atteggiamenti hanno una matrice culturale, si trasmettono in via transgenerazionale attraverso il processo di inculturazione. L’Antropologia Culturale spiega il concetto di atteggiamento “ come un ponte stabilizzato tra l’individuo, in quanto unità psichica e personalità, e l’ambito dei fenomeni naturali ed umani in cui egli realizza il suo comportamento.”( Musio).

A tal proposito è interessante un richiamo alla ricerca svolta dall’antropologa Margaret Mead su due popolazioni confinanti, ma con caratteristiche culturali assai lontane. Una di queste, i Mundugumor del fiume, popolazione di guerrieri,tramandava da una generazione all’altra comportamenti violenti attraverso un sistema educativo altamente repressivo, aggressivo, privo di amore. Al contrario, gli Arapesh della Montagna, popolo di coltivatori, educavano i figli con serenità e rispetto, evitando punizioni corporali violente. Questi individui crescevano con temperamenti tranquilli, privi di espressioni violente [Mead 1935].

Da ciò l’ulteriore conferma che la violenza si interiorizza e coloro che l’hanno subita a lungo non conoscono un “linguaggio” diverso per potersi esprimere, da qui la necessità di rompere questa spirale.

Sembra che all’interno di una famiglia sia uno solo bambino, “bambino bersaglio”, a provocare reazioni aggressive, quello che non somiglia all’immagine mentale che il genitore si è creato, specialmente se sotto i tre anni, senza distinzione di sesso.

Un bambino può facilmente adattarsi all’ambiente in cui vive, essere molto tranquillo, ma può avere dei problemi di adattamento, non mangiare, non dormire, piangere frequentemente, essere portatore di handicap. Tutto ciò mette a dura prova la pazienza di colui che lo sta crescendo, ostacolando il loro rapporto. Si assiste ad una incapacità di decodificare i messaggi del piccolo, per cui si crea una situazione di incomprensione, di tensione, di risposte sbagliate che può portare ad un vero e proprio rifiuto del figlio, anche se a livello inconscio.

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Da questi presupposti scaturiscono non solo rischi di violenza fisica, ma anche psicologica, ossia il manifestarsi di forme di distruzione della personalità in evoluzione, che si esplicano o lasciando il minore abbandonato a se stesso, o soffocandolo ,impedendogli di compiere esperienze significative e strutturanti. Urli punizioni eccessive, ricatti affettivi, disconferme, possono essere traumatizzanti come le percosse.

Genitori un mestiere difficile

Numerose forme di disagio sociale e familiare che si manifestano in età preadolescenziale e adolescenziale scaturiscono da una situazione familiare poco serena e rassicurante. Conflitti familiari o di coppia si ripercuotono negativamente, dando origine a crisi di angoscia, ansia, insonnia, sfiducia, dimagrimento. L’inquietudine che ne deriva si orienta talvolta verso la legittimazione di comportamenti di prevaricazione che non consentono l’emergere di altri modelli di comportamento.

Essere un “bravo genitore” è facile per colui che ha un “bambino giusto”, vale a dire che non si discosta dalle sue idee, dal suo carattere, dal suo desiderio, dalle sue fantasie, riuscendo a trovare una corrispondenza con le sue scelte educative. Il genitore si identifica nel figlio più di quanto crede. Quando ritrova aspetti che gli piacciono va tutto bene, quando però individua tratti nella sua personalità che non condivide scattano turbamenti e incomprensioni. Il fastidio tuttavia riguarda l’adulto più che il bambino; il problema sta nel genitore. Prendere consapevolezza di ciò può aiutare ad evitare di intervenire negativamente sul figlio e far entrare entrambi in un rapporto emotivo più profondo.

Dal momento che il bambino si crea la propria interpretazione del mondo in base al vissuto del genitore, è necessario che tra loro si sviluppi un rapporto di empatia che permetta di non incorrere in rapporti erronei. Ascoltare i bambini senza dominarli vuol dire garantire loro le condizioni perché possano esprimersi ed essere quello che sono [Bettelheim 1987, 117].

In tal modo si eviterà di cadere nell’errore di disporre per il figlio un mondo privo di ostacoli e difficoltà, limitativo per quelle esperienze costruttive che lo preparano ad affrontare con maturità le difficoltà della vita futura. Il ragazzo, se non si scontra mai con le controversie della vita, rimane legato a stati puerili con conseguenti difficoltà di inserimento nel mondo esterno, che col passare degli anni potranno degenerare in crisi di opposizione alla famiglia o in difficoltà a realizzarsi come uomo e ad affrontare un costruttivo rapporto di coppia.

Altro rischio in cui inconsapevolmente si incorre è quello di vivere il figlio come un prolungamento di se stessi, come colui che possa soddisfare le proprie aspirazioni, ambizioni e ideali rimasti inappagati; quindi programmargli un futuro che corrisponde più alle esigenze dell’adulto che non del ragazzo. Con ciò gli effettivi desideri e tendenze rimangono soffocate e creano ansietà.

Il figlio si trova a dover seguire sport, suonare strumenti, scegliere determinati corsi di studio non in base a quelli che sono i suoi reali interessi, bensì in base a ciò che avrebbe voluto fare il genitore, ma che purtroppo non ha potuto realizzare. Il ragazzo è un essere peculiare, unico irripetibile, su cui non si possono nutrire aspettative decise a priori. Egli non è una materia da plasmare e formare secondo i propri gusti, bensì un essere con potenzialità da aiutare a sviluppare, evitando però di stravolgerne l’indirizzo e la creatività. Se ci si pone dalla sua parte potremmo capire molto più chiaramente ciò di cui realmente ha bisogno. Certi comportamenti ostili o aggressivi possono scaturire da difficoltà a seguire e riuscire in attività che non sono a lui congeniali, dal sentirsi inadeguato a rispondere alle richieste dell’adulto. Ogni insuccesso può essere vissuto come totale fallimento o tragedia personale, venendo meno quell’autostima indispensabile per affrontare le controversie dell’esistenza. “La fiducia in se stesso è il primo segreto del successo”. “La stima di sé e ogni ulteriore passo autoistruzionale si costruisce sulle impercettibili percezioni del saper fare”[Minio,].

E’ necessario evitare di punire e accanirsi contro i difetti del bambino, che sovente sono limiti e difetti che l’adulto ha, ma che non ha mai accettato. Essere genitori vuol dire guardarsi dentro tranquillamente ed accettare le proprie carenze, evitando di proiettare sui figli conflitti non risolti del proprio periodo infantile. Il genitore attento si sforza di prendere coscienza delle sue esperienze negative, nonché dei sentimenti e delle emozioni legate a quelle esperienze. Accetterà, inoltre di crescere insieme al figlio e “cambiare quello che si riteneva immutabile, è celebrare il funerale delle memorie passate, di un mondo immaginale costruito nevroticamente dai ricordi” (Minio). Si tratta di superare i sensi di colpa, di non sentirsi troppo oppressi dalle responsabilità che comporta avere figli..

A volte si tende a fare assumere anche ai problemi più banali delle proporzioni spaventose. Da qui la necessità di capire che certe problematiche sono comuni e meno gravi di quelle che possono apparire. Un confronto tra le varie condizioni familiari può servire a sdrammatizzare tensioni, a far scoprire che i bambini sono simili tra loro, anche se le loro manifestazioni individuali si differenziano sorprendentemente. Sentire che altri sono alle prese con i medesimi problemi costituisce un sollievo, discuterne insieme può aiutare a trovare in modo più sereno una soluzione.

Tramite una rete di contatto tra genitori, la formazione e la solidarietà tra le persone si potrà operare una capillare opera di prevenzione sia per aiutare coloro che sono soggetti a comportamenti violenti, sia per evitare certi abusi psicologici che minano la crescita armonica del bambino. Tutti noi corriamo il rischio di perpetuarli seppure, inconsapevolmente, se viviamo chiusi nel privato in quella solitudine esistenziale che è alla base di tante depressioni tipiche della società post - industriale.

 

BIBLIOGRAFIA

  • Ammaniti, Matassi, Salmè, Tolino, Il bambino maltrattato Il Pensiero Scientifico, Roma, 1981
  • Bettelheim, A good enough parent, A. A. Knopf Inc., New York trad. It. Un genitore quasi perfetto, Feltrinelli, Milano 1987
  • Mead, Sex and temperament in three primitive societè, William Morrow & C. New York 1935 trad.it. Sesso e temperamento in tre società primitive, Il saggiatore, 1967
  • Musio, Antropologia e mondo moderno, Angeli,Milano,1978
  • Minio ,Il coraggio come amore, Il coraggio come vita , Il coraggio come educazione, Ce.P.A.S.A, Spoleto

 

Graziella Casula (Psicopedagogista - Firenze)
Patrizia Pasco (Pedagogista - Pontassieve)

(pubblicato negli Atti del convegno "Dare cittadinanza ai diritti inespressi" Firenze 1997)

 


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