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Il modello del giovane-bambino: la sindrome di Peter Pan

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In una cultura come è oggi quella occidentale e post industriale, all’insegna dell’immagine in senso narcisistico e del piacere in senso individualistico, il modello del sempre giovane è il più diffuso e guadagna largamente consensi fino a mutarsi in non pochi casi in una sindrome nevrotica.

sindrome di peter panIl disturbo di cui parlo nasce dalla rimozione nella società attuale di tutti o molti dei riti di passaggio dall’età infantile-adolescenziale a quella adulta, declinati in maniera diversa secondo i tempi e le culture, ma in passato presenti in tutti i sistemi sociali.

Tali riti segnavano simbolicamente l’assunzione di responsabilità inerenti ai nuovi ruoli di accudimento di se stessi e degli altri, propri dello status di adulto.

Il vuoto provocato dalla loro rimozione viene riempito da nuovi riti, a dimensione personale e collettiva, che transitano e si riciclano con rapido ricambio attraverso i mass-media e le attuali forme di comunicazione (pubblicità, spettacolo, internet, etc.), che, invece di attivare un cambiamento evolutivo della persona, dilatano e idealizzano il modello del giovane-bambino, anche perché, dal momento che questo rappresenta un ‘personaggio’ non risolto e/o in fieri, viene individuato dal mercato come l’utente più attivo, dal quale parte una domanda che sempre si rinnova e propone richieste diverse che incentivano una produzione di rapido smaltimento.

In una cultura come è oggi quella occidentale e post industriale, all’insegna dell’immagine in senso narcisistico e del piacere in senso individualistico, il modello del sempre giovane è il più diffuso e guadagna largamente consensi fino a mutarsi in non pochi casi in una sindrome nevrotica: la sindrome di Peter Pan.

Il nome deriva dal personaggio della fiaba di James Mattew Barrie, Peter Pan, che decide di rimanere sempre ragazzino e vola alla ricerca dell’isola che non c’è, nella quale vivere libero e felice.

In questi ultimi tempi sembra che se ne parli molto, e non solo fra gli addetti ai lavori, basta pensare all’insistenza con la quale viene proposto il modello del ‘libero e felice’ al cinema e ancora più nella moda. Un film di diversi anni fa aprì la pista alla divulgazione di questo tema e vide un'audience altissima: L’ultimo bacio, dove, sullo sfondo di una generazione di cinquantenni, impegnata nel cercare di ridare, senza ben riuscirci, un significato a responsabilità personali e sociopolitiche assunte nel passato, emerge in primo piano la generazione dei figli trentenni, in specie dei maschi trentenni, invischiati e in un certo senso imprigionati nel ristagno della loro giovinezza.

L’argomento prende ancora il suo spazio perché è ancora attuale. Chi sono i soggetti affetti dalla ‘sindrome di Peter Pan’?

Non importa se hanno 20 o 30 o 50 anni. Si sentono sempre giovani, anzi adolescenti, rifuggono dagli impegni, dalle scelte importanti e dalle responsabilità. Sono gli eterni ragazzini. Si tratta di un arresto del processo di crescita che porta a recitare sempre lo stesso ruolo, quello un po’ infantile di chi ha ancora tutte le strade davanti e non ha ancora deciso per nessuna.

Certi fenomeni, sicuramente condizionati e in parte originati da situazioni economiche e sociali producono però conflitti, blocchi e adattamenti il cui risultato è iscritto nella ‘sindrome’ di Peter Pan. Un esempio sono i bravi giovani che, forniti di laurea e intelligenza prolungano la condizione di ‘studente’ con vari ‘escamotages’, come quello di affrontare lunghi percorsi di specializzazioni e dottorati di ricerca che allontanano le probabilità di entrata veloce sul mercato del lavoro e dunque di autonomia socioeconomica rispetto alle famiglie di origine.

E’ da evidenziare però che la tendenza a procrastinare l’ingresso sul mercato del lavoro oggi è fortemente influenzata, per lo meno in Italia, dal rilevante fenomeno sociale e politico della disoccupazione. Questo ci fa capire quanto certe situazioni economiche e politiche possano innescare processi di cambiamento anche dei comportamenti umani.

Gli psicologi, se vogliono capire i loro pazienti e il sistema socio-relazionale che portano all’interno dei loro conflitti, è opportuno che si chiedano anche a quali rituali iniziatici sono collegati.

Dalle statistiche risulta abbastanza in evidenza il numero delle terapie ascrivibili alla ‘sindrome di Peter Pan’ un disagio che può limitare o addirittura bloccare lo sviluppo della persona nelle sue relazioni lavorative ma anche affettive.

Si constata infatti che non pochi casi di crisi di coppia riconducono alla ‘sindrome di Peter Pan di uno dei due partners.

Questi soggetti, in un modello idealizzato di se stessi, vivono un sentimento di ‘onnipotenza’ infantile, perché, non sottoponendosi alle prove della realtà con una serie di meccanismi di difesa, come l’evitamento, la razionalizzazione, la sublimazione, la rimozione e la proiezione, conservano intatto l’interiore convincimento di ‘potenza’, sul quale fondano la loro autostima.

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Il mettersi a prova invece, ridefinendo i confini dei loro modelli idealizzati sulla misura di realtà ridimensionanti, comporta una rielaborazione e una trasformazione che genera in loro angoscia e senso di perdita, legato alla consapevolezza di lasciare qualcosa di conosciuto e dunque rassicurante per l’ignoto e all’incapacità di sopportare le eventuali frustrazioni.

Si potrebbe tracciare anche un profilo del tipo psicologico ‘Peter Pan’: è socievole, simpatico e per tale ragione ha molti amici ed è bene accolto nei gruppi dove ama mettersi al centro dell’attenzione con comportamenti leggeri e ludici, sa instaurare rapporti di amicizia, ha in genere una conversazione brillante, con l’altro sesso è gentile, affabile, corteggia e si lascia corteggiare, è creativo. 

Di contro cerca situazioni che lo mettano al riparo dalla necessità di affermarsi come individuo e di dovere stabilire valori e comportamenti propri, non accetta responsabilità e rifugge l’impegno. Ha difficoltà a fare progetti e peraltro insegue molteplici interessi, senza approfondirne alcuno.

Sul piano produttivo stenta a rendersi economicamente indipendente, cambia spesso lavoro o perché vive come oppressione l’impegno, le scadenze, gli orari, o perché, nel momento in cui gli sia richiesta, fugge la responsabilità, talvolta per ansia da prestazione, perciò non è attratto dalla ‘carriera’.

Sul piano affettivo, nonostante sia circondato di un discreto numero di amici, dai quali viene apprezzato per la sua cordialità, non riesce a instaurare relazioni intime e durature, poiché nel momento in cui dovrebbe assumersi la responsabilità degli affetti che prova, preferisce prendere le distanze dalle sue stesse emozioni.

Tali soggetti rinunciano anche a gratificanti coinvolgimenti per fuggire dagli impegni e per sottrarsi allo sforzo di crearsi un ruolo maturo e responsabile.

Freud indicava la condizione di adulto come quella in cui l’individuo è capace di amare e di lavorare, di assumersi cioè delle responsabilità rispetto all’uso delle proprie risorse e di sapere instaurare con l’altro sesso delle relazioni intime.

Questi due traguardi dell’età adulta non vengono raggiunti dai soggetti ‘ Peter Pan’, o, se raggiunti per condizionamenti e pressioni sociali, sono sostenuti con fatica e diventano fonte di disagi e di fughe.

E’ come se tali soggetti fossero trattenuti da qualcosa che sta dietro le loro spalle, l’infanzia, che non permette loro di andare incontro a quello che hanno davanti. Un mio paziente mi raccontava, con manifesta ansia e rammarico, che quando si innamorava ‘sul serio’ –sono le sue testuali parole- si sentiva come sopra una automobile in discesa alla quale si erano rotti i freni e provava una sensazione di caduta vertiginosa, allora, diceva sempre lui, doveva mettere il ‘freno a mano’; a quel punto però l’automobile si fermava ‘di brutto’ e il rapporto amoroso finiva, con uno strappo emotivo che gli provocava dolore, ma anche con non poco sollievo.

Se il fluire della vita con i suoi cicli di crescita, di partenze e di prove da superare può essere spiegato attraverso la metafora iscritta nell’archetipo del ‘Viaggio dell’eroe’, possiamo considerare tali soggetti come perennemente esitanti sulla ‘soglia’ della ‘terra dell’avventura’, là dove dovrebbero vivere la loro iniziazione alla vita adulta attraverso la frustrazione che segue agli errori e la gratificazione per le prove superate, fino all’incontro, ci dice Pennel Rock, con ‘il mostro’, fuori di metafora, con quella ‘prova’ estrema, più significativa di tutte le altre, che c’è nei cicli di vita di ognuno e dopo la quale, partiti dalla ‘casa’ dell’infanzia e lasciate le sicurezze di bambini, si è in grado di tornare e costruire la nuova ‘casa’ di adulti.

Essi invece restano ambiguamente in quel corto tratto che c’è tra la casa genitoriale dalla quale sono usciti e la ‘soglia dell’avventura’, in una perenne tentazione regressiva, ma con lo sguardo oltre quell’invalicabile soglia dove vedono miraggi ( le idealizzazioni, i sogni irrealizzabili) ma anche il ‘mostro’ pronto a ingoiarli nel buio (la paura della morte).

Racconto due casi clinici che ho trattato nel mio studio.

I soggetti benché parecchio diversi tra loro, hanno in comune i caratteri di cui sopra ho parlato oltre ad essere tutti di sesso maschile e di un’età compresa tra i 35 e i 45 anni.

Carlo (nome di fantasia) ha 37 anni, è socievole, allegro e buon comunicatore fino dal primo incontro, nonostante sia frenato da una intermittente balbuzie e arrossisca facilmente, durante un’ora di seduta ha bisogno di andare al bagno per urinare almeno un paio di volte, ma questi comportamenti, che vive come disturbanti, diminuiscono progressivamente fino a scomparire nel giro di una decina di sedute, quando si sente evidentemente rassicurato e accettato. 

Racconta di soffrire di psoriasi in larghe parti del corpo e di sentirsi limitato da tale affezione, tanto che ha cessato di praticare sport poiché si vergognava a esporre alla vista gli arrossamenti sulla pelle. Ma non è venuto nel mio studio per questi motivi di ordine fisico e fisiologico, bensì perché ha paura di scappare davanti all’altare il giorno del. matrimonio e questo, man mano che si avvicina la data delle nozze, diventa un sogno ricorrente, lui dice un incubo. Fidanzato da quasi nove anni, dice di non essere innamorato della futura sposa e di non trovarla sessualmente attraente, ma la considera intelligente e responsabile, perciò, dichiara, ‘ha fatto tutto lei’ e lui glielo ha lasciato fare; Carlo si è sentito infatti saggiamente condotto dalla fidanzata verso il matrimonio, ha trovato rassicurante che lei prendesse iniziative e facesse delle scelte al posto suo, ma è spaventato e si sente intrappolato dalle responsabilità che le scelte della fidanzata comportano anche per lui. Cerca di esorcizzare la paura ‘innamorandosi’ di ragazze più giovani di lui, con le quali sa di potersi giocare con successo la leggerezza, l’allegria e la cordialità che lo caratterizzano.. E’ ancora iscritto all’Università, ma da anni non da esami. E’ molto legato alla madre e dice di nutrire qualche ostilità per il padre che, secondo lui, non ha reso felice la madre.

Marcello (nome di fantasia) ha 43 anni, è un bell’uomo; nonostante l’età ha un aspetto e un’espressione di giovane ragazzo, un atteggiamento mite e comportamenti aggraziati, quasi con tratti femminei, benché sia notevolmente alto e maschilmente robusto. I suoi disagi sono nati già durante gli studi, che non ha concluso; imbarcatosi nella marina commerciale, si è ritirato perché la vita di mare era troppo dura e la disciplina intollerabile, non ha un lavoro stabile e dipende economicamente dalla madre vedova con la quale vive. Sul piano affettivo dichiara di non volersi affatto innamorare né di volere avere relazioni impegnative, ma soltanto una buona attività sessuale. Racconta di essere stato innamorato, parecchi anni prima, e di avere sofferto molto per staccarsi da questa giovane donna che lo spingeva a delle scelte che lui non aveva voglia di fare. Ne ha ancora vivo il ricordo e la nostalgia che ne deriva. Il suo problema dichiarato è il lavoro, di cui, anche se saltuario, farebbe volentieri a meno, per dedicarsi ad attività libere, come la cura della terra e del giardino, dei cani e delle oche. Marcello è un creativo e, senza avere alcuna preparazione grafica, disegna molto bene. In terapia mi avvalgo molto di tale produzione spontanea. I suoi disegni sono molto validi, non solo risultano accuratissimi da un punto di vista grafico, ma anche interessanti sul piano simbolico-figurale, direi che sono inquietanti – nell’osservarli ho provato l’inquietudine e insieme l’attrazione che mi danno i disegni di Bosch, ai quali quelli di Marcello sembrerebbero rimandare, ma egli non conosce Bosch e non ha mai visto un suo quadro. Marcello disegna strane figure poliformi, in cui però prevale l’elemento umano: sono teste dalle quali emergono forzatamente altre teste, dalle cavità degli occhi dita unghiate, dalla bocca altre dita o lingue come lame. L’insieme è fortemente minaccioso. Marcello sembra che si sforzi di contenere nella testa – la sede del mentale, del razionale – una istintualità oscura, rimossa e repressa, che si è come smembrata e fuoriesce a pezzi, attraverso le naturali cavità del volto. Sono allarmanti messaggi dell’inconscio attraverso i quali incomincia un percorso di indagine che porta verso l’individuazione di uno squilibrio interiore del suo ‘maschile’ e del suo ‘femminile’ con un ambiguo attaccamento e dipendenza nei confronti della madre e una omosessualità repressa. Marcello però si difende dalla presa di coscienza di questa sua parte in ombra. Sento che non è ancora pronto e un segnale è che, nonostante disegni anche durante le sedute, non mi vuole lasciare niente di quanto ha prodotto. E’ gelosissimo dei suoi disegni, che non mostra a nessuno. Sono soltanto per lui.

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 Il blocco di fronte alle responsabilità e ai rapporti affettivi, la convivenza e la dipendenza dalla madre di questi soggetti maschi in piena età adulta, mi inducono a richiamare la chiave di lettura di Erik Erikson nella teoria degli stadi integrati, dove la maturazione e le aspettative sociali creano otto crisi o problemi che l’individuo deve risolvere nel corso della sua vita. I soggetti ‘sulla soglia’ hanno fermato la loro evoluzione tra lo stadio quinto, con le problematiche dell’adolescenza, focalizzate sull’identità/rifiuto e il sesto/settimo corrispondenti invece alla prima e alla media età adulta, dove il passaggio evolutivo sta nell’individuazione della propria identità attraverso gli altri e con gli altri e nella capacità di raggiungere l’intimità anche con l’altro sesso senza la paura di perdere la propria identità -“solo colui che avvicina l’altro” dice Erikson “ sia consciamente che inconsciamente, con atteggiamento attivo e donativo, piuttosto che di richiesta e dipendenza, sarà in grado di fare dell’altro ciò che l’altro può diventare”- ; l’ingresso nell’età adulta sta fondamentalmente nell’assumersi ruoli di accudimento, di produzione e anche di creazione rispetto a se stessi, ma un se stessi in relazione con il partner, con la società e con il futuro in cui ogni individuo si proietta, vedendolo come propria continuazione: è quella che Erikson chiama generatività. La mancanza di generatività, di cui sembrano soffrire i soggetti ‘Peter Pan’, si esprime con la stagnazione, l’autoassorbimento (indulgere su di sé), la noia e la mancanza di crescita psicologica. Erikson li definirebbe persone “in moratoria” che si trovano in un serio stato di crisi di identità e non sono ancora capaci di assumere degli impegni.

 C’è in questi casi conflitto tra una volontà di affermazione egocentrica – Adler direbbe ‘volontà di potenza’, che è evidente in questi soggetti che hanno bisogno di essere al centro dell’attenzione e di ricevere cure dagli altri e una volontà di cooperazione e compartecipazione emotiva con altri individui – Adler parlerebbe di ‘sentimento sociale’ -. L’integrazione di queste due ‘volontà’ non avviene, perché tali soggetti si sentono minacciati nella loro stessa identità dalle richieste degli altri.

 Questo conflitto, se apparentemente viene nascosto dal sentimento di ‘potenza’ infantile, sottende una condizione, anche questa infantile, di inferiorità: la percezione di sé come qualcosa di incompiuto, che i soggetti potrebbero cercare di compensare con quell’insieme di comportamenti che Adler chiama ‘arrangement nevrotico’. Una costruzione mirata alla produzione di false idee, con le quali il soggetto giustifica la sua condotta con ‘autoinganni’ opportunamente connessi e supportati da ragioni apparentemente logiche. Insomma ‘stili di vita’ dove, con modalità esistenziali fittizie, si tenta di compensare, mediante false affermazioni di superiorità, il sentimento di inferiorità proprio del bambino di fronte all’adulto.

 Il soggetto ‘sulla soglia’ è difficile in terapia, poiché in genere l’‘arrangement nevrotico’ che si è costruito è egosintonico e non è facile ottenere da lui un atteggiamento di collaborazione nel fargli accettare e nell’elaborare un cambiamento nei suoi comportamenti e nell’ immagine che ha di sé. Questo processo comporta infatti una revisione del proprio vissuto che rappresenta impegno e responsabilità, nonché l’attraversamento del senso di colpa e lo stato depressivo che ne deriva.

 Marcello infatti si è fermato sui confini della propria ombra, il riconoscimento e l’accettazione della omosessualità latente, che poteva essere un punto di partenza verso un percorso di trasformazione e di crescita . La sua regressione è infatti funzionale al non volere/potere vivere pienamente la propria sessualità, che avverte come minacciosa.

 Carlo invece ha rotto il cerchio dell’ ‘arrengement’ nevrotico e ha cambiato ‘stile di vita’, passando dallo stadio adolescenziale a quello adulto attraverso il matrimonio, considerato non tanto come rituale che sancisce un nuovo status istituzionale, ma come una iniziazione alla responsabilità e all’accudimento generativo.. Carlo ha conosciuto la ferita narcisistica della caduta del sentimento di onnipotenza, il dolore del distacco da figura materna di dipendenza e l’accettazione della solitudine e del senso di colpa che ne derivava. Solo dopo questa fase depressiva, è iniziato un lavoro di nuova costruzione e di integrazione tra le sue e le altrui esigenze, in termini adleriani, tra la volontà di potenza e il sentimento sociale, che ha coinciso, per una serie di circostanze, con la rivalutazione della fidanzata e con la scelta, su basi di maggiore consapevolezza, del matrimonio. Gli esiti potevano essere anche diversi. Carlo, nel processo di superamento del suo blocco allo stadio del ‘Peter Pan’, poteva scegliere di non sposarsi, se avesse riconosciuto il vincolo matrimoniale come imposizione . Sarebbe stato comunque dichiarato guarito, poiché avrebbe fatto una scelta sua.

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Ho parlato all’inizio delle ragioni socioeconomiche che possono sollecitare certi comportamenti umani e di una cultura che propone modelli idealizzati di giovanilismo stereotipato che dispone verso la regressione, poiché questa è accettata e funzionale, sotto certi aspetti, alla società attuale. Voglio aggiungere qualche altra considerazione di ordine sociologico, che parte dall’osservazione di quanto il comportamento ‘Peter Pan’ sia più diffuso nel genere maschile e quanto sia influenzato anche dalla presenza invasiva di una madre che proietta i propri irrisolti sul figlio maschio. Il ruolo della donna gioca una parte molto importante nel processo di crescita dell’uomo, come peraltro è viceversa, e non solo sul piano generativo e di accudimento, cioè il ruolo materno, ma anche come posizione che la donna occupa oggi nella società; mi riferisco per tale argomento soltanto alle società occidentali che hanno assistito al processo di riscatto della donna dalla sudditanza verso il potere maschile e dove però, all'emancipazione femminile negli ultimi cinquant’anni del secolo scorso, non è corrisposto un adeguato cambiamento dell’uomo, che, di fronte alla perdita di un potere indiscusso e che forse riteneva inalienabile, sembra essersi messo sulle difensive, insicuro, timoroso di rivelarsi inadeguato all’interno della coppia e della famiglia. Invece di attingere dai nuovi comportamenti delle donne come da nuove risorse, o comunque sia di mettersi in rapporto con questa realtà, ha risposto alla tentazione regressiva verso un’infanzia che lo ha però portato a un altro terminale femminile, quello materno che crea dipendenza. Questo tipo di uomo ha bisogno di essere supportato anche nel riappropriarsi di una sua autonomia maschile, da esprimere senza sensi di colpa e senza la paura che non venga accettata dalla donna. E’ un lavoro che comporta il riconoscimento del proprio maschile e femminile interiori e la loro integrazione.

 In conclusione, voglio fare una considerazione che ritengo importante: se l’Archetipo del giovane eterno può descrivere una definita nevrosi dell’uomo, occorre però guardare al ‘puer’ che Peter Pan incarna sotto un altro aspetto. Peter Pan non solo come modello del rifiuto di crescere, come ombra e complesso materno negativo, ma come il ‘bambino’ interiore che è portatore anche nell’adulto di spontaneità, creatività, fantasia. L’analisi transazionale di Berne e di Harris ci hanno parlato del Genitore, dell’Adulto e del Bambino come modi di comportamento esistenti in tutti noi dalla cui interazione più o meno equilibrata dipende l’equilibrio intra e interpersonale.

 Già si è detto come questi uomini ‘immaturi’ siano però capaci di entusiasmarsi , siano socievoli e apprezzino il gioco. E’ la parte sana del complesso di Peter Pan, dalla quale bisogna partire per andare verso un’ integrazione, e non una inibizione, del ‘bambino’ interiore con l’Adulto che sa riconoscere la realtà e con il Genitore che sa assumersi responsabilità.

 Il soggetto Peter Pan enfatizza il suo ‘bambino’ in funzione difensiva, poiché solo intorno al ‘bambino’ trova il centro di sintesi e di coesione contro il rischio della disintegrazione e della sofferenza.

 Attraverso la terapia la sofferenza rimossa e negata emerge in direzione evolutiva, come transito verso la maturazione, orientando il soggetto al passaggio dai meccanismi di sicurezza a quelli di accrescimento e permettendogli di stendersi sul ‘continuum’ passato-presente-futuro, invece di vivere appiattito nel presente eterno del ‘puer aeternus’.

 Durante questo transito la sofferenza può essere accettata, poiché si carica di senso, finalizzata al raggiungimento della libertà attraverso l’accettazione della vita come ‘viaggio evolutivo’, l’accettazione del dolore come opportunità di crescita, la focalizzazione sulla VOLONTA’ come capacità di fare scelte viste non più come limitazione ma come arricchimento e libertà.

 Sercondo la Psicosintesi di Assagioli, si tratta dell’applicazione della volontà come funzione psichica, come forza attiva dentro di noi e come forza attivabile.

 Ma anche la volontà è necessario che sia ancorata a un ‘progetto’, che vada dall’intenzione alla realizzazione dello scopo. Il soggetto ‘Peter Pan’ supererà la soglia dell’infanzia eterna, quando sarà capace di disegnarsi un modello ideale di funzionamento della propria volontà. Ciò comporta due snodi importanti: quello di scegliere, visto non più come rinuncia ma come acquisizione di libertà, e quello di portare a compimento il ‘progetto’, che il soggetto tende invece a rimandare perché l’associa al distacco e alla morte della subpersonalità ‘bambino’ che lo ha egemonizzato e intorno alla quale si sono aggregate le sue parti psichiche.

Sarà ‘la parte sana’ del soggetto, cioè il suo atteggiamento interiore di giovinezza, che andrà a favorire il processo di evoluzione e di sintesi delle diverse entità psichiche.

 Allora il ‘nuovo adulto’, che realizzerà un dialogo interno con la componente psichica del ‘bambino’, sarà anche salvato dalle stereotipie dell’età adulta e matura come rigidezze, etichette, condizionamenti, preconcetti. Infatti, tenendo vivi gli aspetti positivi dell’età della giovinezza, come dice Assagioli nella “Psicologia delle età” attiverà il processo di trasformazione attraverso una condizione di giovinezza psicologica, a prescindere dall’età anagrafica, cioè come stato dello spirito.

 

 (a cura della Dott.ssa Patrizia Napoleone)

 

 


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Tags: adolescenza peter pan giovane-adulto giovane-bambino

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