Storie ritrovate. Da casi clinici a storie di vita narrate da sé medesimi.
Alfredo Rubino. Psicologo.
U.O. Salute Mentale ASL Napoli 1 Distretto 52.
Questo lavoro presenta una esperienza di psicoterapia istituzionale di gruppo in una Comunità residenziale per pazienti psichiatrici.
La peculiarità della Comunità Santa Rosa di Ponticelli, così come di altre residenze analoghe sorte negli ultimi anni, è che mentre i modelli di “Comunità terapeutica” studiati nella letteratura scientifica si riferiscono ad esperienze curative di pazienti
Alfredo Rubino. Psicologo.
U.O. Salute Mentale ASL Napoli 1 Distretto 52.
Questo lavoro presenta una esperienza di psicoterapia istituzionale di gruppo in una Comunità residenziale per pazienti psichiatrici. La peculiarità della Comunità Santa Rosa di Ponticelli, così come di altre residenze analoghe sorte negli ultimi anni, è che mentre i modelli di “Comunità terapeutica” studiati nella letteratura scientifica si riferiscono ad esperienze curative di pazienti psicotici sorte in sostituzione di famiglie “patogene” (anti-terapeutiche), questa esperienza sorge in alternativa del manicomio, luogo anti-terapeutico per eccellenza che molti anni prima aveva sostituito le famiglie dei pazienti internati.
Infatti, questa Comunità è una delle Strutture Intermedie Riabilitative aperte dalla ASL della città di Napoli nell’ambito della dismissione degli ospedali psichiatrici promossa dalla Legge 180.
La Comunità, inaugurata nel 1994, ospita 18 pazienti (1). Le diagnosi indicano i più gravi quadri dell’ambito psicotico; per alcuni di essi sono associate anche cerebropatie e patologie difettuali. Per i pazienti più anziani tali quadri psicopatologici sono in fase residuale, con una sempre maggiore preponderanza di elementi di decadimento senile. Di conseguenza, la organizzazione comunitaria prevede un alto livello di protezione, con una assistenza sanitaria garantita costantemente nell’arco delle 24 ore.
I pazienti vengono assistiti da infermieri professionali e da operatori di comunità di una Cooperativa convenzionata con la ASL. Mentre gli operatori di comunità rappresentano un gruppo stabile, ciascun infermiere si succede in un lungo turno che comprende anche le attività ambulatoriali e di emergenza della UOSM, di cui la Comunità è parte integrante, seguendo una logica istituzionale che, motivata alcuni anni fa dalla necessità di ripartire equamente una indennità stipendiale, ora è del tutto superata ma si perpetua in maniera inerziale senza alcuna considerazione della opportunità di una maggiore continuità terapeutica.
L’equipe è completata da una caposala e da una terapista della riabilitazione. Le attività sono coordinate e dirette da uno psicologo, autore di questo scritto.
La vita della comunità viene organizzata tendendo presente un modello “comunitario”, dove qualsiasi operazione, al di là del proprio valore pratico, viene considerata un’opportunità per stabilire –contrariamente a quanto avveniva nella realtà manicomiale- una relazione personale e significativa tra gli ospiti e tra ospiti ed operatori.
D’altronde, tutte le esperienze comunitarie per pazienti psichiatrici vedono negli operatori la principale risorsa terapeutica, in quanto “ambasciatori della realtà” (Racamier, 1972), che contengono le proiezioni deliranti dei pazienti con la loro presenza stabile, disponibile, pronta, non opprimente e non gerarchizzata.
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(2)Giovanni immancabilmente all’inizio di ogni seduta così apostrofa il conduttore del gruppo: “Parlate voi. Voi che venite da fuori, raccontateci che cosa succede nel mondo, che cosa si dice. Noi stiamo qua dentro e non sappiamo niente”.
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I primi anni di attività della Comunità sono stati dedicati prioritariamente all’incremento delle capacità di autonomia personale e di cura del sé, restituendo a queste persone parte della propria dignità ed identità individuale perduta, pur confrontandoci con un danno ormai irreparabile, nell’intreccio tra disturbo psichico e reclusione manicomiale.
Se il reinserimento di gran parte di queste persone nel tessuto sociale è una prospettiva tuttora illusoria, diventa sempre più essenziale individuare delle concrete direttrici operative verso cui indirizzare la vita comunitaria.
La nostra specifica esperienza si è orientata nel corso degli ultimi anni a considerare la condivisione di uno spazio e di un tempo il presupposto per dar vita ad una “residenza emotiva” (Scortecci, 1999), un luogo dove il paziente possa avere la “possibilità di sentire che i suoi bisogni e i diritti al mantenimento di un’area illusionale sono salvaguardati”. Essi potrebbero così riconoscere sempre di più il Santa Rosa come “casa” propria, luogo dove preservare e valorizzare il residuo senso di appartenenza, dove poter trovare riscontro sia alle esigenze quotidiane, sia alla propria dimensione desiderativa, che seppur frammentata ed espressa in maniera problematica, appare tuttora viva e rilevante.
Ovviamente una Comunità, per quanto accogliente e funzionale, non potrà mai essere una vera casa, né tanto meno colmare la irrimediabile perdita vissuta, evento innominabile avvenuto ormai in una mitica era passata; agisce tuttavia un irrinunciabile bisogno dell’uomo di connotare di appartenenza e riconoscimento un luogo accogliente legato ai primari bisogni di sicurezza, stabilità e calore.
In tal senso, si dovrebbe assistere all’evoluzione di una struttura assistenziale e sanitaria, un “non-luogo” (Augè, 1992) dove non si crea identità, non si stabiliscono relazioni ma si vive una incolmabile solitudine, dove non c’è storia né tradizioni condivise, in un “luogo antropologico” che sia “principio di senso per coloro che l’abitano e principio di intelligibilità per colui che l’osserva”.
Il paradigma teorico che usualmente sottintende l’organizzazione delle comunità psichiatriche considera l’idea di riabilitazione strettamente connessa alle attività proposte ai pazienti. Il mito del recupero dell’autonomia perduta incentra l’azione terapeutica più sul fare che sul dire, interpretando i bisogni dei pazienti soltanto in senso materiale, oppure fidando che la condivisione di esperienze quotidiane positive possa rimediare ai danni causati dalle precedenti esperienze relazionali negative.
Lo spazio delle esperienze quotidiane può anche essere interpretato come “spazio potenziale”, area transizionale in senso winnicottiano, che connetta il mondo esterno e il mondo interno. Quindi, il bisogno di quotidianità per riparare il danno subito dovrebbe coniugarsi alla offerta di “spazi per la rielaborazione emotiva e fantasmatica dell’esperienza stessa” (Correale, 1997), nel tentativo di restituire ai pazienti la possibilità di identificare dentro di sé dei desideri e di esprimerli in maniera più congrua e consapevole.
Sulla base di tali considerazioni, in una realtà comunitaria ove precedentemente non era previsto alcun momento di ascolto strutturato dei pazienti, si è proposto una esperienza di psicoterapia istituzionale di gruppo, esplicita nel suo intendimento fin dal “titolo” con cui è stata presentata a pazienti ed operatori: Il cerchio dei sogni e dei desideri.
Il sollecitare l’espressione del mondo desiderativo del paziente grave, per di più reduce da molti anni di destrutturante esperienza manicomiale, comporta l’oneroso compito di confrontarsi con uno scenario interno confuso e frammentario. La condivisione di contenuti angosciosi quanto incomprensibili non può considerare il bisogno dei pazienti di vedersi restituire tali vissuti in “una forma riconoscibile (…) che ne permetta una trasmissibilità”, restituzione che Correale (1997) vede come una necessaria “funzione analitica” affinchè i pazienti più gravi possano modulare, contenere ed elaborare i loro inestricabili “nodi affettivi”.
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Il conduttore annuncia al gruppo il programma del prossimo soggiorno estivo. Tutti sono entusiasti. Annibale è impaziente di partire ma subito l’entusiasmo si tramuta in angoscia rievocando tutti i familiari morti. L’intero gruppo immediatamente si sintonizza sulla medesima angoscia, attaccando i propri desideri positivi.
Antonio ammonisce: “Per andare a Scario bisogna passare per Paestum dove le bufale tengono quattro corna. Queste bufale impazziscono perché bevono l’acqua salata. Bisogna stare attenti!”
Ciro incalza: “A Paestum le femmine sono tutte puttane”.
Assunta inizia a cantare: “ ‘E figlie di Capodichino fanno ammore co’ ‘e marrocchini….” (anche lei, ricoverata tanti anni al Bianchi a Capodichino è un po’ una “figlia di Capodichino”), con una voce sempre più infantile e arrossendo visibilmente, vergognandosi di aver lasciato trasparire un desiderio sessuale.
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“L’attenuazione di sentimenti negativi per dar luogo ad altri, ancor negativi, ma più appartenenti alla sfera dell’umano e del sopportabile…” necessita di una “figura dialogante”, una presenza di interlocuzione e di scambio, che svolga una funzione di “modulazione”.
Tale funzione, secondo Correale, può essere assolta con migliore efficacia dal gruppo, “perché il bisogno di attaccamento di questo tipo di pazienti tende a trascendere la possibilità di risposta di una singola figura, per investire un intero gruppo, molto spesso nella sua versione istituzionale”.
“Si verifica così che il paziente grave –così come ogni essere umano- investa affetti, emozioni e fantasie non solo sui singoli membri dello staff curante ma su questo oggetto comune condiviso. Il paziente grave ha un bisogno particolarmente intenso di effettuare investimenti di questo tipo, perché l’oggetto gruppo è dotato di caratteri, quali continuità, potenza, efficacia, resistenza nel tempo, ampiezza di possibilità, che vengono –in gran parte giustamente- ritenuti molto superiori a quelli di cui dispone il singolo individuo”.
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Mentre si sta effettuando la seduta, al di fuori del cerchio Giuseppe passeggia nervosamente, recitando ad alta voce una filastrocca in cui egli cita confusamente articoli del codice penale, con il tono di chi si sente colto in fallo e deve accettare l’inevitabile castigo.
Il gruppo ne è infastidito. I numerosi tentativi di zittirlo, di indurlo ad allontanarsi o di sedere e partecipare al gruppo vengono ignorati da Giuseppe. Gli infermieri informano i conduttori che da qualche giorno il paziente è molto delirante e che il medico ha provveduto ad un aggiornamento della terapia farmacologica.
Improvvisamente Giuseppe entra nel cerchio virtuale circoscritto dal gruppo e riacquistando un’inaspettata lucidità rivela: “Mio fratello mi ha detto che non mi vuole più a casa. Domenica sono andato a casa e lui si è incazzato. Ha detto che telefonerà alla caposala per dire che io non devo più uscire”.
Conduttore: “Forse vostro fratello è rimasto indispettito dal fatto che la visita era inaspettata. Penso che uno non si possa presentare all’improvviso”.
Giuseppe: “Io voglio andare a casa”.
Conduttore: “Al termine del gruppo telefonerò a vostro fratello e gli chiederò se potete andare Domenica. Se ha già degli impegni, gli dirò che andrete l’altra ancora”.
Giuseppe: “Grazie assai”.
Esce dal cerchio e riprende a vaneggiare.
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Nei giorni precedenti Giuseppe era stato interrogato più volte e da diversi operatori sui motivi della sua agitazione; mai era riuscito ad andare oltre contenuti deliranti e a comunicare il suo problema, pur se semplice e concreto. Solo entrando nel temenos gruppale egli riesce ad esprimersi e a fidare nella potenzialità contenitiva agita dal gruppo, ove egli sente di poter essere accolto ed aiutato.
Questa esperienza è iniziata tre anni fa. Le sedute hanno cadenza settimanale e durano attualmente circa un ora, mentre all’inizio era possibile sostenere il setting al massimo per quaranta minuti. Le sedute si svolgono in una stanza dedicata alle attività comunitarie dove i partecipanti siedono in cerchio.
Prima di ciascuna seduta, tutte le persone presenti di volta in volta in Comunità -operatori ed ospiti- sono invitate a partecipare. Generalmente, accedono al gruppo circa dieci ospiti. Cinque/sei sono sempre presenti e molto attivi nella partecipazione; gli altri presenziano più sporadicamente o costituiscono presenze silenziose. Mentre gli operatori di comunità sono sempre partecipi, gli infermieri tendono a sottrarsi; quando intervengono, solo alcuni mostrano un coinvolgimento personale, mentre gli altri tendono a sottolineare la loro estraneità al gruppo rimanendo in piedi o sedendo al di fuori del cerchio, entrando e uscendo continuamente dalla stanza.
Il Gruppo prevede un rituale di inizio e di chiusura costituito dal far girare in circolo un tamburello che ciascuno dei partecipanti suona liberamente. Tale marca di contesto si è rivelata utile per sancire i limiti di una esperienza che dovrebbe costituire una discontinuità nel normale fluire degli avvenimenti quotidiani. Inoltre la produzione di suoni consente un momento di libera espressività anche per le persone che hanno più difficoltà ad esprimersi verbalmente, permettendo a volte di sottolineare stati emotivi altresì inesprimibili.
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Vito percuote lungamente e sommessamente il tamburello. Come al solito, non prenderà la parola per l’intera seduta. Annibale gli strappa lo strumento di mano e lo percuote violentemente. Lo passa a Mario che lo usa come uno scudo, nascondendo il volto dietro di esso. Infine, tocca a Giovanni che suonando commenta: “Così si faceva nell’Africa Orientale per radunare gli animali feroci. Suonavano i tamburi e accorrevano leoni, coccodrilli, elefanti, scimpanzè…”
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La seduta ha inizio ed è evidente come ci si ritrovi ben lontani dallo scenario di un gruppo di persone in grado di condividere consapevolmente le regole di un setting, capaci di raccontare, ri-costruire, re-interpretare la propria esperienza in maniera significativa e con una dimensione di continuità in modo che abbia senso per se stessi e per gli altri.
Si assiste, al contrario, ad incontri spesso caotici, caratterizzati dal rapido susseguirsi di sequenze incongrue e frammentarie, a cui seguono lunghe fasi di pesante silenzio. Un osservatore avrebbe la sensazione di situazioni stereotipate che si ripetono invariate, con il vano sforzo di recuperarne una intelligibilità. Ed infatti le differenze sono spesso minime: un paziente, assente da mesi, che partecipa per pochi minuti affidando al gruppo una richiesta o un ricordo d’infanzia, un altro che improvvisamente segue con interesse ciò che si dice e riesce a riconoscervi qualcosa che gli appartiene così da contribuirvi con una frase sconnessa e appena bisbigliata, la protesta del paziente sempre silenzioso e in disparte, apparentemente disinteressato, che chiede conto al conduttore di come mai non si sia fatto il gruppo la settimana precedente.
Una serie di elementi che quindi ancor di più rivestono una grande rilevanza, il cui significato il terapeuta tenta faticosamente e lentamente di ricostruire mettendo insieme i diversi frammenti agiti ed espressi dal paziente psicotico con l’intento di restituirgli uno scenario definito ed intellegibile di sé, similmente al lavoro dell’archeologo che ricompone una immagine armonica e congrua rimettendo insieme i minuscoli tasselli di un antico mosaico, dove ciascun frammento di per sé è insignificante.
Più che una particolare attitudine interpretativa, risulta determinante la continuità della presenza dell’operatore. Infatti solo operatori che vivano quotidianamente le vicende comunitarie e conoscano la storia e la personalità dei pazienti possono cogliere le minime fluttuazioni psichiche suscitate in ognuno di loro dagli avvenimenti. (Sassolas, 1997)
La prima direttrice tecnica da assumere nella conduzione di un gruppo di tal natura non può che essere indicata nella “empatia” .
Non ci si riferisce tanto ad una paternalistica benevolenza verso il paziente quanto alla difficile ricerca di un reale rapporto personale, un sincero interesse per l’altrui vicenda esistenziale, partendo dall’idea “che il danno originario del paziente psicotico derivi principalmente da un’esperienza di deprivazione di vissuti di condivisione, compartecipazione e contatto emotivo, che hanno la funzione di far sentire di nuovo come proprie intere aree del vissuto soggettivo, rimaste per così dire estranee al senso di sé”. (Correale, 1997)
L’ideale sarebbe raggiungere una “giusta distanza emotiva” per un significativo scambio relazionale, limite che peraltro è molto arduo stabilire con persone che vivono l’assenza dell’altro come un abbandono e la sua presenza come una minaccia insostenibile, evocando poi nell’interlocutore lo stesso continuo alternarsi di emozioni che vanno dall’inaccessibilità all’invasività.
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Uno dei conduttori in occasione dell’onomastico di Giovanni ha portato una scatola di dolci. La scatola passa da una persona all’altra e ciascun paziente avidamente si riempie le mani di dolci e li mangia voracemente. Gli operatori presenti non prendono nulla, passando velocemente la scatola a chi sta accanto. L’altro conduttore notando ciò, ne è contrariato, sentendolo come una ingiustificata manifestazione di distanza e quando la scatola arriva a lui, si serve a piacimento. Un infermiere riprende seccamente uno dei pazienti più voraci: “Che hai combinato! Ti sei insozzato tutta la camicia di cioccolata. Madonna santa! Quando mangi fai proprio schifo, sembri un animale!” Il conduttore che sta finendo di mangiare si sente disgustato e gli viene in mente che molti pazienti sono portatori di affezioni infettive… con le mani potrebbero aver contaminato i biscotti e ora egli potrebbe ammalarsi e costituire un pericolo di infezione anche per i propri figli. Tali emozioni e pensieri avrebbero accompagnato il conduttore per l’intera durata della seduta e per diverse ore successive.
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All’inizio qualcuno pone sempre una domanda sulla vita comunitaria (le escursioni programmate, la lavatrice che si è rotta…) o su una questione personale (la pensione da riscuotere, la tutrice che non ha ancora portato le sigarette richieste…), ma si tratta di una sorta di rituale di rassicurazione. Sono sempre questioni di cui tutti sono informati e tutti conoscono le risposte possibili.
Subito dopo, quasi spontaneamente, qualcuno inizia a raccontare un qualcosa di sé, un frammento della propria storia, anche senza alcuna attinenza con la situazione presente, esprimendo piacere ed emozione nel recuperare parti di sè ormai perdute, spesso appartenenti ad un’era precedente della propria vita, quando ancora non si era manifestata la “catastrofe interiore” del collasso psicotico e la “fine del mondo” (Freud, 1910) fino ad allora conosciuto, rappresentato dalla reclusione manicomiale.
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Michele: “A scuola ero troppo rivoluzionario…”
Infermiere: “Che facevi? Litigavi con tutti?”
Michele: “No, avevo la testa troppo piena di pensieri… mi portavano dai medici… Poi papà mi portò al manicomio. Quando ho capito che mi voleva lasciare lì io mi guardavo attorno, per capire che succedeva. Mi sono girato e papà non c’era più. Se ne era andato e mi aveva lasciato lì”.
Infermiere: “Che hai fatto?”
Michele: “Volevo la libertà”.
Infermiere: “Volevi tornare a casa tua?”
Michele: “Io non ho più nessuna posizione. Vorrei andare su Plutone, il pianeta di ghiaccio, a coltivare grano”.
Conduttore: “Giuseppe, anche a voi è successo che avete perso la libertà…”
Giuseppe: (Era detenuto all’OPG) “Ero stato condannato a sei mesi… Una sera il secondino viene da me e mi dice: Preparati, devi uscire. Io gli dico: Ora si è fatto tardi. Posso rimanere per stanotte, me ne vado domani mattina? Va bene. La mattina dopo viene il secondino e mi dice: E’ arrivata una carta del giudice, devi rimanere qui. Io dicevo: Come è possibile? Ero disperato, mi davo la testa nelle sbarre… Avete capito? E’ stata colpa mia, non me lo posso perdonare! Se me ne fossi andato subito, quella sera, non ci rimanevo sette anni là dentro! Quando sono uscito era tutto cambiato. Non c’era più la casa mia, mia madre era morta, io ero distrutto”.
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Racconti drammatici che esprimono il senso di un Evento terribile che si impone ineluttabile ed imprevedibile nella vicenda di un individuo che si mostra impreparato a fronteggiarlo e che scinde la vita in due momenti distinti: il prima, il tempo che ha preceduto l’Evento, spesso narrato con nostalgia; il dopo, diretta conseguenza di quell’Evento fatidico i cui effetti sono tuttora visibili.
Ci si trova di fronte alla narrazione di un “mito personale”, la rappresentazione che l’individuo ha di sé, che non può essere messa in discussione, che guida le sue azioni e le sue emozioni: “un frammento di storia che resta sempre uguale a sé stesso, che tende a spiegare e a non essere spiegato”. (Starace, 2004)
Chi ha vissuto “la fine del mondo” si aggrappa a qualunque cosa e diffida di qualsiasi cambiamento, anche se prospettato come benefico, temendo di essere privato anche di quel poco che gli rimane. Così anche il cambiamento rappresentato dall’essere accolti al Santa Rosa, pur se ha costituito un indubbio miglioramento della propria condizione di vita, probabilmente è stato vissuto con timore e diffidenza, sentimenti che si riattivano rispetto a qualsiasi proposta di ulteriori novità. La fantasia comune, in cui tutti si riconoscono, è la difesa dell’esistente, lo stringersi in questa nuova scialuppa ed evitare che dall’esterno penetrino elementi minacciosi, in quanto inattesi ed incomprensibili.
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Conduttore: “Signor Giovanni, come mai non siete andato anche voi a mare?”
Giovanni: “Qualcuno doveva pur rimanere a far la guardia a questa casa”.
Anna: “I ragazzini da fuori buttano le pietre e rompono i vetri!”
Giovanni: “Se non ci stiamo accorti il Santa Rosa diventa un cimitero. Avete visto quanti feretri passano qui davanti?” (La Comunità sorge nei pressi di un cimitero e spesso nella strada antistante passano dei carri funebri) “Se scaviamo qua sotto… usciranno un sacco morti!”
Conduttore: “Lunedì ci sarà una nuova gita. Dobbiamo decidere come organizzare questa giornata”.
Giovanni: (Fortemente irritato) “Perché chiedete a noi? Noi siamo solo dei ricoverati, stiamo chiusi qui dentro. Voi siete dottore e voi dovete decidere!”
Conduttore: “Perché dite che state “chiusi”? La porta del Santa Rosa sta aperta, tutti potete entrare ed uscire. Insieme tutti noi possiamo decidere come fare questa gita”.
Giovanni: “Perché dite “noi”? Noi siamo una cosa, voi un’altra. Noi stiamo ricoverati, voi venite da fuori e ve ne andate a casa vostra!”
Conduttore: “ Calma! Perché vi arrabbiate tanto?”
Giovanni: “Non voglio andare da nessuna parte. Lasciatemi in pace!”
Annibale: “Pure io direi…è meglio che non la facciamo questa gita. Tanta gente…che ne so…può succedere ‘na ammuina…”
Antonio: “Nella televisione hanno fatto vedere la guerra. Può venire pure qui. Me li ricordo i bombardamenti e la gente ammazzata a Santa Croce”. (Una strada vicina al Santa Rosa)
Conduttore: “Che esagerazione! La guerra è lontana”.
Michele: “Ma dalla Palestina può venire pure qui. Pure il Santa Rosa può essere colpito da un bombardamento al napalm”.
Conduttore: “Speriamo di no. Per il momento è tutto tranquillo”.
Assunta: “Qui fuori è pieno di ladri. Di notte bisogna chiudere porte e finestre”.
Annibale: “Dottore! Ora che andate via, state attento, c’è la polizia. La notte viene pure mio fratello a bordo di una De Tomaso a controllare la situazione”.
Michele: “Ci sono molti mafiosi che evitano l’arresto dicendo di aver avuto il trapianto di cervello”.
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Questa sequenza sembra esprimere oltre che il dilagare di una ideazione paranoica anche il trincerarsi dell’intero gruppo dietro un assetto difensivo contro una qualsiasi possibilità di cambiamento proveniente dall’esterno. D’altronde lo psicotico, non avendo raggiunto una adeguata capacità di elaborazione della propria esperienza psichica, non riesce a reggere i cambiamenti di cui è connotata la vita perché non è in grado di elaborare i lutti che ciascun cambiamento comporta.
Un contesto gruppale, dove poter esprimere una propria dimensione desiderativa, sembra attivare una sorta di meta-desiderio condiviso, il raccontarsi e affidarsi ad un contenitore accogliente quale è il gruppo, dove trovare una funzione di contenimento di sentimenti e pensieri che non troverebbero nella consueta comunicazione interpersonale della Comunità uno spazio ugualmente disponibile ad accoglierli.
Il ruolo del conduttore diventa conseguentemente quello di chi garantisce un clima discorsivo, di chi si preoccupa di mettere a proprio agio il narratore, dando dignità anche alle sue difficoltà ad esprimersi.
Se il narratore riesce a riconoscersi nelle parole altrui di attenzione e conferma ciò ha un indubbio effetto sulla propria autostima che riceve un ulteriore accrescimento dalla esperienza di poter e di saper raccontarsi.
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Annibale è agitato ed inquieto. Il Gruppo si tiene di venerdì pomeriggio, momento in cui si ripropone per lui il problema angosciante se qualcuno dei familiari verrà a trovarlo nel fine settimana. Cerca di stabilire un rapporto privilegiato con il conduttore, rimarcando agli altri pazienti una sua diversità, proponendo di non iniziare la seduta ma di uscire lui e il conduttore per andare a prendere un caffè al bar. Alla risposta che bisogna comunque fare prima la seduta, Annibale si mostra contrariato. Non vuole suonare il tamburello nel rituale d’inizio e assume un atteggiamento silenzioso e triste, muovendo ritmicamente e nervosamente la gamba accavallata. D’un tratto, si alza ed esce dalla stanza. Dopo qualche minuto, rientra gridando: “Fuori c’è la polizia! Ora voglio vedere i documenti di tutti quanti”.
Una infermiera (di nome Rosa) cerca di rassicurarlo parlandogli dolcemente.
Assunta invece lo attacca: “Dottore, questo sta sempre agitato, la notte non ci fa dormire…andava avanti e indietro. Ha fatto ‘o pazzo!”.
Giovanni: “Stai zitta, tu vuoi mettere sempre guerra!”
Conduttore: “Dai retta alla signora Rosa. Perchè non telefoni a tuo fratello e ti fai accompagnare a trovare tua madre?”
Annibale: “E’ meglio non andare a disturbare mamma. E’ anziana e deve già badare a Rosa e ai nostri figli”. (Una pseudologia fantastica di Annibale è di essere sposato con Rosa, una ragazza con cui era stato brevemente fidanzato, e di aver messo al mondo sei figli)
Conduttore: “Anche qui c’è una Rosa che ti ricorda l’affetto di mamma”.
Annibale: (Scoppia in un pianto teatrale) “Che devo fare? Sono tutti morti. Mio padre, mio nonno, la buonanima di zio Gigino, tutti quanti. E quelli che sono vivi mi hanno abbandonato! Loro…i morti…la notte vengono a trovarmi ed io ho paura…molta paura…che devo fare…voglio solo che notte passa presto…
Infermiere: “Dottore, questo la notte va a svegliare tutti quanti. Si veste e vuole andare in cucina a preparare la colazione. Ma nessuno deve dormire, va a svegliare tutti gli altri e li costringe a scendere dal letto perché bisogna fare come se fosse già giorno”.
Annibale: “Non ne voglio parlare…” (Si allontana dalla stanza. Subito dopo, rientra)
Giovanni: “Hai visto la trasmissione: I Fatti Vostri?”
Infermiere: “Sì. Il presentatore dice sempre: La vita continua”.
Annibale: “’Mò è tutto a posto. Io la mattina voglio fare il caffè per tutti quanti e non voglio nemmeno essere pagato…non voglio niente. Vorrei solo che mio fratello (gemello) Gaetano mi facesse una telefonata ogni tanto… noi stavamo sempre insieme, poi io me ne andavo dietro il Municipio e me la facevo con quelli che si bucavano, Gaetano invece ha studiato, poi si è fidanzato e si è messo a lavorare. Mi volevano fare fidanzare con la sorella della sua ragazza, ma a me non mi piaceva. Lui me lo diceva sempre: Dove vai? Tu con quelli ti inguai! Poi è partito, mò sta a Genova…ed io sono rimasto solo…(l’aggravarsi delle condizioni di Annibale coincise proprio con la partenza del fratello). Mamma mia, chist’è proprio nu manicomio…”.
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In letteratura vengono riportate diverse esperienze ad orientamento psicopedagogico (Demetrio, 1999; Demetrio, Bolzoni, 2003) sull’uso della narrazione orale di sè come metodica formativa non terapeutica e non direttiva, finalizzata all’attivazione o alla ri-attivazione di percorsi di crescita individuali e di gruppo. Tali esperienze compiute in contesti comunitari ed istituzionali tendono a sostenere il sentimento di autostima individuale e ad indurre l’elaborazione di nuove mappe interpretative della realtà.
Si tratta di “un metodo che stimola domini mentali e aiuta l’individuo a collocarsi nel tempo e nello spazio, a ritrovare un Self nel lavoro sulla propria memoria, a riconoscersi e a riscoprire una propria appartenenza sia individuale che sociale”. (Demetrio, Bolzoni, 2003)
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Annibale: “Dottò, ma per quale motivo io e gli altri stiamo qua…ma noi stiamo qua perché siamo pazzi, è vero?”
Conduttore: “Voi non state qui perché siete pazzi…se fosse per tale motivo allora dovremmo trovare posto per molte altre persone che camminano per strada…voi state al Santa Rosa soprattutto perché non avete una casa dove vivere”.
Giovanni: “Ma non è sempre stato così…io sono stato fortunato, in passato ho avuto dei colpi di fortuna, facevo il calzolaio e stavo di casa dietro piazza CarloIII…la sapete?...E poi sono stato a Parigi, ho pitturato la Torre Eiffel…quella ogni tanto bisogna pitturarla se no si arrugginisce….mi ricordo che nella Metropolitana c’era la scritta: Arti e Mestieri”.
Ciro: “Era l’insegna di una scuola? ”.
Giovanni: “Che ne so! Io lavoravo e vedevo questa scritta…poi sono stato in Germania…facevo il ferroviere….a Francoforte, ad Amburgo…”
Ciro: “Lo parlavate il tedesco?”
Giovanni: “Ho imparato un poco…mò non mi ricordo più niente…sono passati tant’anni…”
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Le narrazioni inevitabilmente comportano“l’induzione di investimenti oggettuali: il soggetto scopre che la propria storia di vita non può far a meno degli altri ed è quindi una microstoria sociale”. (Demetrio, Bolzoni, 2003) Egli è certamente il protagonista, ma assieme a lui agiscono tanti coprotagonisti ed antagonisti con i quali bisogna continuamente incontrarsi e confrontarsi.
L’orientamento psicodinamico considera invece il presupposto che le storie narrate dai pazienti non si riferiscano solamente ad una realtà storica quanto ad una “realtà psichica” su cui si deve esercitare una attività interpretante.
Ogni storia è possibile solo a partire dalla memoria di sè. Il continuum dei ricordi è segno della continuità psichica e il ricordare ci mette in contatto –come soggetti- con il fluire della vita.
Le sequenze narrative raccontate nel gruppo presentano piuttosto un andamento confuso, con grandi balzi temporali tra passato e presente. Si susseguono piccoli e grandi avvenimenti e la narrazione procede incerta con continue cadute e riprese. Gli avvenimenti non rappresentano necessariamente momenti di svolta ma possono aiutare a distinguere e caratterizzare le diverse fasi della vita. In tal senso, il creare le condizioni per la loro rievocazione può contribuire a ricostruire un ordine che rappresenti almeno in parte la complessità dell’organizzazione dell’esperienza.
Non si tratta tanto di fronteggiare delle carenze nelle capacità logiche o delle lacune della memoria, quanto della impossibilità per persone oppresse da un indicibile dolore mentale di distanziarsi seppur fugacemente dalla propria angoscia.
Ad esempio, mentre normalmente il vissuto di continuità dell’esperienza considera un ordine stabilito nella successione temporale, cosicchè il passato comunque è già avvenuto e se anche dovesse essere abitato da oggetti cattivi non c’è più pericolo, questa convinzione nello psicotico è molto più fragile. Il suo mondo di ricordi è così concreto ed attuale che passato e presente coincidono e il ricordare è come vivere nel presente quella stessa angoscia. (Maffei, 1986)
Anche se l’oggetto della narrazione appartiene al passato, ciò che viene raccontato rivive ed agisce nel presente perché è nel presente che diviene un evento relazionale, connotato dalle emozioni e dalle necessità attuali. (Starace, 2004)
L’assenza di una stabile dimensione spazio-temporale comporta un sincretismo nel senso di identità individuale che si riflette conseguentemente anche nelle relazioni che vengono agite nel gruppo.
A tale proposito Bleger (1988. cit. da Neri, 1995) parla di una “identità gruppale sincretica” che “si appoggia non su una integrazione, un’interazione o regole di livello evoluto, ma su una socializzazione in cui tali limiti non esistono; ognuno di coloro che, da un punto di vista naturalistico, vediamo come soggetti, individui o persone, non possiede un’identità in quanto tale, la loro identità sta nella loro appartenenza al gruppo”.
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Assunta: “Sono stata male tutta la notte con la pancia. Ho pure vomitato. Ho fatto la cacca e ho visto un verme che ci camminava dentro”.
Guido: (Sussurrando in maniera appena percettibile) “Il male sta dentro… e ci avvolge tutti”.
Infermiere: “Stamane abbiamo chiamato il medico di urgenza per far visitare Assunta. Veramente è stata male”.
Assunta: “Mi ha dato una medicina per far morire il serpente”.
Conduttore: “Ma che cos’era? Un verme o un serpente?”
Assunta: “Era grande, proprio un serpente…”
Mario: (scoppiando a ridere) “Ti mangio la rezza del cuore!”
Giovanni: “Quando ero bambino non c’erano tanti soldi e mia madre comprava le interiora degli animali, che costavano poco, e ce le dava a mangiare. Invece al Bianchi, quando c’era poca carne, si mangiava carne umana. Si prendeva uno dei ricoverati e ce lo mangiavamo”.
Conduttore: “Lo uccidevate?”
Giovanni: “No, quello rimaneva vivo e partecipava pure lui al pasto della carne sua”.
Assunta: “E’ vero, è vero”.
Giovanni: “Pure io sono stato mangiato tante volte. Una volta mi ha mangiato pure Antonio quando stava nella mia stessa sezione”.
Conduttore: “Com’è possibile?”
Assunta: “E’ vero, è vero”.
Antonio: “La carne umana è tenera come quella del manzo…”.
Giovanni: “…Ma il sapore cambia da persona a persona. Ci sono alcuni che sono più teneri, altri meno saporiti”.
Annibale ride e con i gesti sottolinea che gli sembrano tutti pazzi.
Assunta: “Al Bianchi una volta c’era un amico di mio fratello. Una volta se lo dimenticarono e rimase chiuso tutta la notte in un’officina. Il giorno dopo lo trovarono morto. Lo trovarono che era stato mangiato dai topi”.
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Questa sequenza è particolarmente significativa nel rappresentare come l’evocazione di un contenuto, che sembra legato alla percezione e alla preoccupazione di portare dentro di sé elementi patogeni dal carattere primitivo, intrusivo e maligno, immediatamente circoli nell’involucro rappresentato dal gruppo. Come un’eco, questa immagine, rimbalzando velocemente nelle menti dei singoli, acquista una straordinaria intensità, cosicchè ciascuno è portato ad associarvi proprie fantasie. Il carattere sincretico e frammentario del pensiero dei componenti del gruppo si esplica allora nella condivisione di una immagine di reciproco ed accettabile cannibalismo come forma più diretta di trasmissione ed incorporazione di contenuti intrapsichici.
L’azione nel gruppo di una ideazione delirante e sincretica non deve far pensare alla continua proposizione di immagini bizzarre o irreali. Al contrario, interminabili sequenze sono caratterizzate da racconti banali e di azioni quotidiane. Al di là dell’indubbio valore di rassicurazione che ha il sentire su di sè l’attenzione dell’altro grazie a fatti che sicuramente verranno compresi ed apprezzati, sembra rilevante la diversa qualità emotiva con cui questi racconti vengono proposti. Ci sono infatti pazienti per i quali i fatti della vita quotidiana sono molto importanti, altri li considerano invece qualcosa di inessenziale. Probabilmente i primi riescono a riconoscere nei fatti banali di tutti i giorni comunque un qualcosa che circoscrive e conferma la propria identità e permette una connessione con la realizzazione di desideri inconsci, seppur regressivi quali bisogni di incorporazione orale o di dipendenza. Per gli altri questa connessione non è possibile e il bisogno non riesce a divenire domanda che implichi per la sua realizzazione la presenza dell’altro. Avremo così racconti di desolante piattezza che non riescono a indurre nell’ascoltatore alcuna risonanza, provocando piuttosto un vissuto di paralisi e di irritazione.
A volte c’è una scena desolatamente vuota di personaggi, altre volte c’è un affollamento di persone, come sovente accade nei contesti istituzionali dove il paziente ha a che fare con tante persone ma nessuno riesce a divenire così importante da favorire proiezioni ed identificazioni.
Ed infatti molti elementi della vita istituzionale contribuiscono a rendere difficile il percepire la peculiarità della presenza dell’altro e il differenziarla dalla unicità della propria identità. Basti pensare alla inevitabilità di dover condividere con altri oggetti altrimenti personali o al vedere un proprio capo di abbigliamento indosso ad un altro paziente, nonostante tutti gli accorgimenti rivolti alla “personalizzazione” della vita comunitaria.
Un altro elemento significativo nella difficoltà a tracciare una continuità tra ricordo del passato ed esperienza del presente è la circostanza che questi pazienti, in seguito al traumatico distacco dalla casa familiare e ai lunghi anni di manicomio, non conservino alcun oggetto del loro passato, quegli oggetti che tutti noi conserviamo nonostante abbiano perso il loro valore d’uso e che servono a trattenere frammenti di vita vissuta, testimoniando fatti a cui viene assegnato un prezioso valore affettivo. Gli oggetti personali della vita attuale e anche eventuali oggetti superstiti del passato perduto, nel momento in cui vengono collocati in un contesto istituzionale, assumono un senso rinnovato, perdendo del tutto il loro significato evocativo: si integrano nella realtà dell’istituzione ed attingono da essa nuovi significati.
In conclusione, volendo individuare un senso istituzionale per questa esperienza, si può senz’altro affermare come il gruppo sia divenuto occasione di incontro e di ascolto riconosciuta ed attesa dai pazienti e come abbia certamente contribuito alla seppur lenta e faticosa evoluzione del Santa Rosa. Nel corso degli anni la Comunità si è trasformata sia nei suoi aspetti accessori sia nei caratteri più stabili e rigidi; ciò che resta inalterato è il “mito” del carattere immutabile dell’istituzione. Sicuramente si è avviata una trasformazione da luogo di custodia (3) a luogo di accoglienza e di incontro, nuove esperienze che contraddicono quel senso di separazione (scissione), di sospettosa chiusura (paranoia), di fredda immobilità (depressione) e di rigida ripetitività (compulsività) che contraddistingue l’ istituzione.
(1) 13 (di età dai 74 ai 46 anni; età media 60 anni) reduci da degenze all’Ospedale Psichiatrico Leonardo Bianchi lunghe dai 37 ai 3 anni (degenza media 23 anni); 1 paziente (di 56 anni) proveniente da 7 anni di ricovero all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario Sant’Eframo di Napoli; 4 pazienti (dai 53 ai 42 anni) hanno invece una storia clinica più recente e non hanno vissuto l’esperienza manicomiale.
(2) Le trascrizioni di frammenti di seduta non sono letterali ma basate su appunti scritti da alcuni colleghi psicologi tirocinanti che nel corso del tempo si sono succeduti nel ruolo di osservatori. Un sincero ringraziamento va al dott. Francesco Ciaramella che mi ha sostenuto all’inizio di questa esperienza e in una prima riflessione metodologica.
(3) E il Santa Rosa, anche per oggettivi limiti strutturali, è ben lontano dall’andare oltre una situazione accettabile.
(4) All’apertura, ai pazienti era impedito di uscire dalla Comunità se non accompagnati dagli operatori. Venivano organizzate delle “gite” dove gli Infermieri erano soliti portare una borsa piena di farmaci per eventuali situazioni di emergenza, peraltro mai utilizzati. Attualmente, oltre le circa 150 occasioni di attività extramurarie organizzate annualmente dall’istituzione, 4 pazienti trascorrono l’intera giornata al di fuori della Comunità impegnati in attività gestite da loro stessi autonomamente; 8 pazienti escono liberamente muovendosi con tranquillità nel rione circostante ove tutti li conoscono; solo 6 pazienti escono raramente ed esclusivamente accompagnati da operatori o familiari in quanto il loro disorientamento e la disorganizzazione comportamentale costituisce motivo di pericolo per sè stessi.
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