Ricordi, sogni, riflessioni (Jung 1961) - Ultima Parte
[…] Fu quella la prima volta che ebbi l’occasione di parlare con un non-europeo, cioè con un non-bianco. Era un capo dei Pueblos Taos, un uomo intelligente, dell’età di quaranta o cinquant’anni. Il suo nome era Ochwìa Biano (Lago di Montagna). Potei parlare con lui come raramente ho potuto con un europeo. Certamente era prigioniero del suo mondo, così come un europeo lo è del proprio, ma che mondo era! Parlando con un europeo ci si incaglia sempre nei banchi di sabbia delle cose conosciute da tempo ma mai comprese; con questo indiano invece la nave galleggiava su mari profondi, sconosciuti. E non si sa che cosa sia più affascinante, se la vista di nuove spiagge o la scoperta di nuove vie d’accesso a ciò che ci è noto da sempre e che abbiamo quasi dimenticato. “Vedi” diceva Ochwìa Biano “quanto appaiono crudeli i bianchi. Le loro labbra sono sottili, i loro nasi affilati, le loro facce solcate e alterate da rughe. I loro occhi hanno uno sguardo fisso, come se stessero sempre cercando qualcosa. Che cosa cercano? I bianchi vogliono sempre qualche cosa, sono sempre scontenti e irrequieti. Noi non sappiamo cosa vogliono. Non li capiamo. Pensiamo che siano pazzi”.
Gli chiesi perché pensasse che i bianchi fossero tutti pazzi.
“Dicono di pensare con la testa” rispose.
“Ma certamente. Tu con che cosa pensi?” gli chiesi sorpreso.
“Noi pensiamo qui”, disse, indicando il cuore.
M’immersi in una lunga meditazione. Per la prima volta nella mia vita, così mi
sembrava, qualcuno mi aveva tratteggiato l’immagine del vero uomo bianco […] (p. 297)
[…] Allora capii che nell’anima, fin dalle sue prime origini, c’è stato un anelito alla luce e un impulso inestinguibile ad uscire dalla primitiva oscurità. Quando giunge la notte profonda, ogni cosa assume un tono di cupa malinconia, di un’indicibile nostalgia della luce. È questo il sentimento che si manifesta negli occhi dei primitivi, e che può essere notato anche negli animali. Negli occhi di questi c’è una tristezza che non scopriremo mai se dipende dalla loro anima o se è un doloroso messaggio che ci si manifesta da quell’esistenza originaria. Questa è l’atmosfera dell’Africa, l’esperienza delle sue solitudini. È un mistero materno, l’oscurità primordiale. Ecco perché l’esperienza più sconvolgente per il negro è la nascita del sole al mattino. Il momento in cui la luce appare, è Dio. Quell’attimo apporta la salvezza. Credere che il sole sia Dio, significa perdere e dimenticare l’esperienza archetipa di quel momento. Dire: ‘Siamo contenti che la notte, durante la quale vagano gli spiriti, sia passata’, è già razionalizzare. In realtà grava sopra la terra un’oscurità diversa da quella naturale della notte: è la primeva notte psichica che per innumerevoli milioni di anni è stata ciò che è ancora oggi. L’anelito alla luce è l’anelito alla coscienza […](pag. 321)
Jung C. G. (1961), Ricordi, sogni e riflessioni, a cura di A. Jaffè, tr. It. Rizzoli, Milano, 1978.
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