«Ogni uomo in buona salute può fare a meno di mangiare per due giorni; della poesia, mai»
Charles Budelaire
La visione “dannata” della vita del poeta francese ben si adatta a personificare una concezione moderna dell’uomo, che contrasta con l’idea meccanicistica dell’era post-industriale.
Lo scontro fra visioni, per quanto astratto per esigenze poetiche da una parte, per necessità ingegneristiche dall’altra, si consuma attorno all’idea che il “mangiare”, inteso come mera necessità di sopravvivenza, mediata – nella società occidentale – dall’ottenimento del denaro tramite il lavoro, non sia la condizione maggiormente motivante, in realtà.
Non è il corpo a motivare l’uomo ma lo “spirito”. E la poesia, in questo celebre passo, non è solamente una rima che sgorga dalla penna di un pensatore fine ma la massima elevazione al godere di tutto ciò che la vita ci promette. Una logica che non mette in crisi quella di Maslow: non significa in realtà che l’uomo è disposto a rinunciare al cibo per la poesia, ma che disposte le sue necessità primarie in un cassetto, non intende limitarsi a queste e aprirà nuovi cassetti fino a quando non otterrà qualcosa.
La poesia è la massima espressione della ricerca umana poiché è l’arte che avvicina gli uomini e alla natura, che li trascende a immagini che mai compariranno davanti ai loro occhi, che li rende protagonisti di storie che non accadranno mai, che li consola e li rende felici anche se per pochi attimi.
Nulla di più lontano e evanescente rispetto al tangibile denaro. Eppure, lo supera in desiderio.
Uscendo dalle logiche delle metriche poetiche, la visione è quanto di più moderno possa offrire un’idea di uomo come sistema aperto orientato alla ricerca di bisogni superiori che passano dalla gratificazione individuale a quella sociale.
Una visione alla quale anche l’attuale medicina si è inchinata ma che è ispirata dalle più attuali scienze sociali e umane.
Da Taylor in poi ci si è domandati come motivare le persone, come agire su di loro gli interessi dell’organizzazione in cui operano per mantenerne elevata la produttività, per implementare la compliance e ottenere il massimo investendo il minimo.
Taylor si sbagliava quando asseriva che l’output economico è l’unico fattore motivante, ormai la storia lo ha sancito. Ma ciò ha fatto perdere certezze a chi confida nelle relazioni lineari, nelle teorie con cause ad un unico fattore. Le cose sono ben più complesse, come complesso è l’animo umano.
Talvolta ce se ne dimentica: le organizzazioni investono in innovazione, in tecnologia, in risorse strumentali, ma dimenticano di investire nelle persone che le fanno funzionare.
Sarebbe come non fare manutenzione dei macchinari. L’uomo non è una macchina ma va ugualmente manutenzionato: chiedergli come sta, se c’è qualcosa che non funziona, come può migliorare la sua performance…
Certo è una logica poco incline a quella del controllo, poiché l’uomo non risponderà mai attraverso dei valori su un display. Ma fornirà comunque risposte.
E queste disorienteranno sempre chi crede e spera nella logica del salario come unica motivazione al lavoro.
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