La psicologia delle parole e quella delle azioni
Tutti sappiamo qual’è il ruolo dello psicologo, più o meno. Egli è quello da cui andiamo per raccontare i nostri problemi e lui ci ascolta e ci a aiuta superare i momenti difficili.
Anch’io sono stata molto tempo seduta dietro alla scrivania dei tanti “servizi pubblici “in cui ho lavorato. Consultori familiari, Centri di Neuropsichiatria Infantile, Servizi per i tossicodipendenti, alcolisti, Ospedale psichiatrico…penso non mi manchi niente.
Poi finalmente sono uscita da dietro le scrivanie e mi sono avvicinata di più alle persone che hanno bisogno di un sostegno psicologico.
Le ho incontrate sulle navi, nei centri di accoglienza, per la strada: qualsiasi contesto è stato utile per avvicinarmi ai profughi.
E dopo anni di lavoro mi sento di dire che restare dietro alla scrivania, che del resto io ho ancora e uso, nel mio studio privato, quando si ha a che fare con i migranti spesso non ci permette di capire realmente le loro emozioni, la loro disperazione, i loro pensieri e le paure.
Per esempio se hanno fatto un viaggio che è durato un anno e mezzo dal Kurdistan all’Italia, attraversando almeno undici paesi , nei quali sono stati regolarmente picchiati, incarcerati, violentati, non mi stupisce che soffrano di deliri di persecuzioni e non riescano a dormire insieme a quaranta persone perché hanno paura di essere uccisi.
La stessa cosa succede se sono passati dalla Libia: nessuno ne è uscito indenne, né psicologicamente, né fisicamente.
Allora so che nei centri dove vengono accolti, compresi i miei, non basta inviarli dalla psichiatra e dalla psicoterapeuta dei servizi pubblici. “Vado lì un volta alla settimana, parlo dei miei problemi, e vengo via sempre con gli stessi problemi. Poi ci penso, sempre, sono solo, non parlo con nessuno, non riesco a dimenticare. Non vedo futuro, la mai vita non ha alcun senso, non ho amici né parenti, penso spesso che sia meglio morire”
E infatti, nonostante le terapie e i colloqui, i più fragili spesso ritentano più volte di uccidersi.
D’altra parte, quando stavo anch’io dietro alla scrivania, mi sentivo impotente di fronte a loro , sapevo che non sarei stata in grado risolvere tutti quei problemi.
Chi arriva a noi ha una vita spezzata. Deve dimenticare il passato e costruirsi un presente e un futuro. Come, con che cosa? Magari sognano una vita migliore, ma se nessuno li aiuta a costruirsela, concretamente, come possono fare i primi passi, e poi tutti i successivi?
E la burocrazia certo non li aiuta, se in tutta Europa i tempi di attesa per il riconoscimento di asilo vanno dai 12 ai 24 mesi.
Così sono necessarie altre persone accanto a loro che con molta pazienza spieghino bene come l’integrazione e l’autonomia non sono un regalo ma una conquista, e che possono essere raggiunti solo a piccoli passi e con molta fatica.
Ogni profugo ha una sua personalità e se viene riconosciuto come essere umano, e non come numero, qualunque profugo può farcela, a seconda delle sue capacità intellettive, degli anni di scuola che ha fatto al suo paese, o dei lavori in cui è già esperto.
Certo, ascoltarli è la prima cosa da fare per aiutarli a superare i momenti di grave depressione, ma poi bisogna anche tirarli fuori dai silenzi e impegnarli nel quotidiano.
Altrimenti continuano a vivere nel passato, nel dolore e nella disperazione e nessuna pillola al mondo li aiuta, da sola, a rinascere.
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