Una notte di paura
Per la prima volta ho avuto paura di fronte a un ragazzo ventenne che è salito sul camper-ambulatorio di Medici Volontari Italiani qualche sera fa. Questo camper viene utilizzato in diverse situazioni.
Una di queste prevede che noi siamo presenti dal lunedì al venerdì sul piazzale davanti alla stazione Centrale di Milano.
In genere non abbiamo troppi problemi e il servizio si svolge in tranquillità.
I nostri pazienti sono i senza tetto che dormono intorno alla stazione. Prima dormivano anche all’interno, dove almeno erano protetti dal freddo e dalla pioggia, ma negli ultimi anni la stazione è diventata un super mercato di lusso, con boutique famose e bar costosi, e ai senza tetto è stato proibito l’accesso.
Quindi si arrangiano e dormono all’esterno in tutti gli anfratti, sui gradini, sotto i portici degli edifici di fronte.
Il mio compagno di lavoro, l’autista, era un giovanotto simpatico, efficiente, gentile.
Proseguivamo con calma, avevamo già visitato una quindicina di persone, quasi tutte straniere.
Non erano stati casi semplici, anzi, quasi tutti problematici anche dal punto di vista psicologico.
Ma questo è il nostro target usuale, non possono essere sani in nessun modo vivendo sulla strada.
All’improvviso però la nostra routine serale è stata scossa dall’arrivo di un ragazzino italiano in piena crisi psicotica e senza documenti. Tentavamo un dialogo tranquillo, ma lui ci chiedeva cose impossibili. E passava dall’apparente tranquillità a una violenza verbale inquietante. Voleva a tutti i costi un posto in un dormitorio, cosa che non è in nostro potere dare, e medicine per la sua psicosi, che non abbiamo certo sul camper. Con fatica e sempre con la paura che si scatenasse da un secondo all’altro la violenza fisica che i suoi occhi dimostravano, siamo riusciti a chiedergli qualcosa. Abbiamo capito che era sulla strada perché aveva voluto allontanarsi dai suoi famigliari, che abitano in un paese dell’hinterland milanese.
Accusava tutti del suo malessere, compresi noi due.
Piano piano, stando attenti a seguire la sua logica e non opponendoci ai suoi discorsi, siamo riusciti a convincerlo a tornare al suo paese, dove avrebbe potuto chiedere all’anagrafe del comune la carta d’identità con la quale avrebbe potuto essere accolto in un centro.
Il tutto sarà durato circa trenta minuti. Appena il ragazzo è sceso io e l’autista ci siamo sentiti come due sopravvissuti a una catastrofe: ci siamo guardati e senza parlare abbiamo chiuso in fretta e furia il camper per cominciare a respirare regolarmente. Per fortuna non avevamo più pazienti ad aspettarci fuori. Per quella sera l’ambulatorio era chiuso.
Solo quando avevo lavorato in un ospedale psichiatrico avevo provato quella sensazione di paura così agghiacciante. Non avremmo neanche avuto il tempo di chiamare qualcuno se in qualche modo avessimo scatenato la sua follia, perciò avevo rinunciato subito al tentativo di ricovero coatto.
Purtroppo sono tanti quelli che vivono attorno alla stazione Centrale e che presentano problemi psichiatrici. Tante associazioni di volontariato forniscono pasti e vestiti, ma come medici constatiamo spesso che nessuno dei beneficiari accetta di essere ricoverato per essere curato, se non quando arriva a un punto di non ritorno.
By accepting you will be accessing a service provided by a third-party external to https://psiconline.it/
Commenti