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Terapia estrema

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terapia estremaLa conobbi per caso, ad una cena tra amici comuni. Prima di allora non c’eravamo mai incontrati e così quando a tavola, ad un certo punto, venne fuori il lavoro che svolgevo mi sentii guardato con un misto di curiosità e di superiorità dalla giovane donna che mi era stata presentata come Maria Rossi. Alzò le sopracciglia, mi guardò di traverso e:
« Fai davvero lo strizzacervelli? ».
« Béh… sì! - volli minimizzare - o almeno ci provo ».
« Ahaa… Figuriamoci - rispose lei, ostentando un leggero disgusto - ne ho conosciuti io… ».

In realtà, quella sera, a cena, non ci dicemmo molto più di questo. Forse solo qualche altro accenno leggero e disinvolto ma io, che oramai da tempo avevo sviluppato un’acuta sensibilità verso le tensioni dell’anima altrui e tutte le sue proiezioni possibili immaginabili, intuii che tra noi si era creato un qualche genere di legame. Nonostante fossi a cena da amici cari, anche senza davvero volerlo, entrai in quella dimensione interiore di allerta che caratterizza la mia funzione di terapeuta ma che mal sopporto nella vita ordinaria.

In un qualche modo la serata arrivò alla fine.

Non saprei dire se furono gli amici comuni a caldeggiare la mia figura con Maria o se quel semplice incontro fosse bastato a stimolare la sua curiosità. Fatto sta che alcuni giorni dopo mi telefonò chiedendomi un appuntamento professionale. Al nostro primo incontro mi si chiarì quella strana impressione di curiosità e di disprezzo che avevo percepito in lei la sera della cena: erano anni che Maria stava male, anzi… forse era sempre stata male, da quando era nata. E da allora decine di professionisti l’avevano visitata ma nessuno era stato in grado di fare la diagnosi giusta e di trovare il farmaco che avrebbe potuto alleviare i suoi tormenti. Neurologi, psichiatri affermati, dottori generici e psicologi ci avevano provato e riprovato: tutto inutile. I suoi tormenti non accennavano a diminuire. Recentemente era stata persino ricoverata in casa di cura e imbottita di farmaci e psicofarmaci per più di venti giorni. Ma non era servito a nulla.

« I tuoi sintomi specifici, Maria? » volli sapere.
« Una sorta di frenesia interna - mi descrisse lei - un’irritazione fisica dolorosa che mi costringe a camminare su e giù per la stanza come una leonessa in gabbia, come in preda ad una tensione che non conosce tregua e che può tenermi in agitazione per più di ventiquattro ore di seguito… per poi continuare, e continuare ancora. E ancora e ancora. Giorno dopo giorno, come in una specie di incubo da cui non riesco a svegliarmi ma che non mi fa dormire per settimane intere. È questa mancanza totale di sonno che mi snerva. Non chiudere occhio per giorni e giorni. Mai, neanche per un minuto. E questa frenesia interiore… questi dolori generici e diffusi a causa dei quali mi gratterei a sangue o mi prenderei a pugni sulla testa o mi morderei tutta ».

Mentre parlava Maria contorceva le mani, il viso atteggiato ad una sofferenza estrema, gli occhi dilatati, la gamba destra ipercinetica.

Per me fu questione di un istante: intuii che mi trovavo di fronte ad una Grande Isteria. Uno di quei gravissimi disturbi che erano stati tanto frequenti tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento e che avevano fatto la storia della psicanalisi. Il grande psichiatra Jean-Martin Charcot aveva ricoverato alcuni di quei casi più gravi nei padiglioni della Salpétrière, vicino Parigi, e su di essi aveva condotto i suoi celebri esperimenti con l’ipnosi. Sigmund Freud all’inizio della sua carriera, quando ancora era allievo specializzando di Charcot, aveva subito il fascino del grande maestro e di quella cura ma in seguito, prendendo le distanze dal metodo ipnotico, aveva partorito le germinali idee di quella che sarebbe stata la futura cura psicanalitica. Non a caso il primo celebre caso – nel quale si realizzò la transizione dal metodo catartico, applicato da Josef Breuer, al metodo psicanalitico, applicato da Freud – fu appunto quello di Bertha Pappenheim, meglio conosciuta come Anna O: un caso di isteria!

In effetti il numero incredibilmente elevato di casi clinici riportati dai padri della psicanalisi fa supporre che, in quell’epoca, la Grande Isteria – e i fenomeni di conversione somatica e di ipocondria ad essa collegati – fossero più che frequenti in tutti gli strati della popolazione.

Molti studiosi ritengono oggi che tale sindrome, oltre ad una base di predisposizione genetica, possa aver avuto profonde radici nella cultura vittoriana dell’epoca e che per questo, al mutare dei tempi e al venir meno di certi presupposti, la stessa sia quasi scomparsa dalle casistiche cliniche attuali.

Ciò nonostante, in qualche rara circostanza, se ne può ancora incontrare un qualche caso. Io stesso, nel corso dei miei tanti anni di attività, ne avevo incontrati almeno altri due: uno moderato, anche se pur sempre caratterizzato dagli stessi elementi eziopatologici, da sintomi generici eppure gravi e violenti e, infine, da una sorta d’insuperabilità terapeutica. Un altro invece gravissimo, con insonnia, esplosioni di disturbi fisici incontrollabili ed episodi eclatanti di auto-distruttività e aggressività violenta contro oggetti e persone. Quest’ultimo caso aveva fatto impazzire prima me, per quattro anni circa, e poi un mio caro amico psichiatra il quale, nonostante lo avessi avvertito, era “caduto con tutte le scarpe” nei tranelli psichici che la mia paziente gli aveva teso (dopo che gliela avevo inviata solo per un piccolo sostegno farmacologico). All’epoca io avevo finito per consigliare alla mia paziente che l’unica cura per lei potesse essere quella di dedicarsi al teatro, anche a livello dilettantesco, per strumentalizzare e canalizzare quelle possenti forze da cui invece era strumentalizzata. In un certo senso l’avevo sfidata a “cavalcare la tigre”. Il mio amico, invece, si convinse che armato del farmaco giusto l’avrebbe aiutata a trovare un maggiore equilibrio ed era finito per essere strapazzato e devastato dall’energia incontenibile della mia ex-paziente. La solita prosopopea dei medici, incapaci di cogliere il confine tra l’organico e lo psichico ma, anche, incapaci di riconoscerlo, lo aveva castigato. Ben gli stava.

Ma torniamo al punto. Anche se quasi scomparsa dalla faccia del mondo moderno la Grande Isteria resta pur sempre una sindrome della quale un qualunque terapeuta dovrebbe possedere almeno la conoscenza teorica. Il “Manuale di Psichiatria Classica” di Silvano Arieti ne riporta i sintomi patognomonici: un’appariscente e scintillante “teatralità” che esalta sintomi fisici spesso generici e diffusi; somatizzazioni vacanti, che migrano da un organo all’altro a seconda di varie opportunità o di arcani significati simbolici; disfunzioni sessuali più o meno ben occultate; “negazione” come meccanismo di difesa privilegiato; debolezza estrema dell’Io nei confronti di impulsi che provengono dall’inconscio e che “agiscono” senza contenimento cosciente alcuno.

La vera maledizione di questa sindrome, però, riposa nel destino relazionale nel quale costringe chi ne è affetto. Perché la teatralità è talmente evidente, e i malesseri denunciati così assurdi e improbabili, da attirare sul malato solo riprovazione e accuse di mala fede. Il malato spesso reagirà allora accentuando le manifestazioni dei propri sintomi, in un disperato tentativo di essere creduto e preso in considerazione. Ovviamente senza rendersi conto che, proprio così facendo, otterrà una maggiore riprovazione e addirittura la condanna rabbiosa da parte di tutti coloro che gli sono vicini. In una escalation praticamente infinita.

La verità, quella vera, è che la Grande Isteria è una malattia dell’anima. Una delle più terribili, perché congegnata in maniera tale da lasciare pochi spazi a qualunque forma di terapia. E non è assolutamente vero che con un po’ di “buona volontà” la persona che ne è affetta potrebbe risolvere le proprie difficoltà e trovare un minimo di equilibrio.

Tornando a Maria, la prima cosa da fare sarebbe stata quella di accertarmi se la mia diagnosi, basata su un lampo intuitivo, potesse davvero essere considerata giusta. Avevo bisogno di conferme.

« Senti Maria… - le chiesi la seconda volta che ci incontrammo - capisco che stai malissimo. Vedo che sei a pezzi. Chissà quanti giorni sono che non dormi… però io avrei bisogno di conoscere tutta la tua storia. Vorrei conoscerti meglio per capire cosa fare. Te la sentiresti? ».
« Posso provarci » mi rispose lei.

E così ebbi la conferma che avevo visto giusto.

Ancora una volta siamo nel cuore della Sicilia. Maria è l’ultima figlia di un nucleo familiare composto da due genitori e tre fratelli più grandi. Il padre, figlio a sua volta di nobili proprietari terrieri, si era laureato in farmacologia e aveva investito le ricchezze della propria famiglia di origine nell’apertura di una catena di farmacie che dalla Sicilia arriverà fino a Roma. Brillante, colto, ricchissimo, è un “puttaniere” nato. Mette incinta la moglie, ma poi si disinteressa di lei e dei figli che nasceranno, più interessato a consolidare il proprio impero economico e alle donnine compiacenti di cui persegue i favori. La moglie, che sarà la futura madre di Maria, trascina la sua vita dentro casa, tra una gravidanza e l’altra. Quando le gravidanze saranno finite, deturpata nel corpo e nell’anima, senza interessi propri, lentamente si lascerà scivolare in malanni e malesseri più o meno immaginari che alla fine la porteranno ad allettarsi completamente.

Questo è “l’ambientino” in cui Maria verrà al mondo e nel quale crescerà, rimanendo trascurata e ignorata nei suoi più elementari bisogni di attenzione e accoglimento. Trascurata da tutti! Se non fosse per una giovane governante, molto probabilmente assunta per ottemperare a questo preciso scopo, e che diverrà e rimarrà per sempre, la madre surrettizia di Maria.

La bambina comunque non si arrese subito al fatto di essere stata messa da parte. Come tutte le bambine del mondo è probabile che abbia guardato al proprio padre con una sorta di amore devozionale che chiedeva solo di essere preso in considerazione. Peccato, però, che non ottenne alcuna risposta.

E qui il temperamento innato di Maria, forte, creativo, coraggioso e determinato, le si rivoltò contro. Un’altra bambina – come lei senza una madre valida e con un padre indifferente – sarebbe potuta cadere in un disturbo alimentare più o meno grave. Oppure in una forma depressiva cronica. Oppure ancora in uno schizoidismo invalidante. Tutte sindromi gravi, ma più attaccabili dalla psicoterapia di quanto non lo sarebbe stata la grande messa in scena isterica. Ma, appunto, l’intelligenza e il forte temperamento di Maria convogliarono le sue strategie in una direzione senza ritorno.

La bambina aveva bisogno di attirare l’attenzione del padre su di sé! Voleva quell’attenzione. A tutti i costi! Cominciò così ad accusare strani malesseri, mal di testa ingiustificati, dolori di pancia (è probabile che il modello materno, già all’epoca, avesse fatto scuola), e a penetrare nella farmacia paterna in cerca delle pillole che avrebbero potuto alleviare i suoi dolori.

Credo di poter dire che sarebbero bastate due carezze; qualche abbraccio affettuoso; un paio di baci e un po’ di solletico sul pancino. Invece cominciò il braccio di ferro tra lei e il padre: “Ma cosa pigli, che non hai niente!”, “Sto male… mi fa male la pancia”, “Ma vai a studiare piuttosto”, “Voglio una medicina”, “Non ti serve”, “La voglio”, “Fa come ti pare”. E magari dopo un po’ di tempo: “Non mi fa guarire”, “Te lo avevo detto io. Togliti di torno!”, “Ma io sto male… molto male…”, “Sì… me lo immagino proprio”.

Tutto qua. Il meccanismo che creò la tragedia di Maria iniziò così: il bisogno inderogabile di essere riconosciuta, la negazione del riconoscimento da parte del padre, il rialzo della posta da parte di Maria, l’indifferenza che aumenta insieme al giudizio negativo.
Da quello che potei ricostruire Maria fu una ragazzina davvero speciale: forte, fiera, con un marcato senso estetico e una creatività fuori dal comune. Possedeva doti di fantasia non indifferenti, ma non fu mai aiutata a verificarne il valore e la bontà.

A questo punto del racconto, intorno agli anni della pubertà, Maria colloca altresì un paio di episodi di leggere molestie sessuali che avrebbe subito da parte del proprio padre. Tuttavia me le raccontò introducendo troppa incertezza e distacco perché la mia lunga esperienza su episodi del genere registrasse la cosa come plausibile sul piano reale. È molto più probabile che la molestia si situi più che altro su un piano fantastico psicodinamico, perché le tensioni sessuali edipiche irrisolte fanno parte del quadro clinico teorico che stavo contemplando.

Come che sia, Maria crebbe così: con una madre vittima e perdente che si andava progressivamente allettando e un padre indifferente nei suoi riguardi, occupato in avventure galanti e a fare denaro. Le sue prime esperienze amorose giovanili, vissute al liceo artistico di Palermo, furono fallimentari. Nel contatto corporeo Maria era rigida, contratta, difesa: in un misto di attrazione e repulsione nei confronti degli uomini che le derivava da un complesso edipico malato e distorto, più che irrisolto (come tante volte accade), e da una serie di messaggi, alcuni subliminali e altri espliciti, provenienti dalla madre (gli uomini sono solo dei porci, vogliono tutti la stessa cosa, il sesso fa schifo).

L’ipocondria di Maria si intensificò gradualmente. Spesso cadeva preda di quella tensione dolorosa interna che sarebbe divenuta il motivo ricorrente della sua vita di adulta e che lei amplificava, teatralizzandola. Con il risultato, ricorrente in questi casi (al punto che si trova descritto per filo e per segno nello stesso “Manuale di Psichiatria” di S. Arieti), che nessuno era disposto a credere alla realtà dei dolori che accusava. Come se le somatizzazioni isteriche, appunto perché somatizzazioni, non causassero effettivo dolore. Come se, tanto per fare un esempio, l’anestesia ipnotica che si ottiene proprio grazie a quegli stessi processi di somatizzazione e che permette piccole operazioni chirurgiche, non fosse reale. Come ho già detto è il controsenso implicito della Grande Isteria. La sua maledizione aggiuntiva.

Divenuta adulta Maria stava trascinando la sua vita “senza infamia e senza lode” quando il destino – che a volte sembra davvero voler infierire su alcune persone – le fece incontrare l’uomo che sarebbe divenuto suo marito. Un fidanzamento frettoloso durante una vacanza estiva, poi il matrimonio con trasferimento a Roma. Poi la scoperta, che i due coniugi fecero insieme, la prima notte di nozze, della impossibilità per Maria ad accogliere sessualmente il proprio uomo. In pratica un “vaginismo” da manuale, sempre di origine psicosomatica, che all’epoca un qualunque ginecologo avrebbe dovuto saper diagnosticare e un qualunque psicoterapeuta poter curare. E invece nulla! Sembrerebbe che nessuno sia stato in grado di indirizzarla sulla strada giusta.

Lo so già… ci sarebbero i presupposti per non credere a questo racconto della mia paziente. Ma il fatto è che in tanti anni ne ho ascoltati fin troppi, tutti uguali, e la mia diffidenza sull’incapacità o la malafede dei medici di base e degli specialisti credo sia più che legittima. Per tutta la vita sono stato testimone dell’arroganza dei medici italiani molti dei quali, educati a credersi dei Padri-Eterni della salute, scadono nell’inadempienza grave piuttosto che ammettere, umilmente, la non competenza nei territori psichici. Qualcuno penserà che sono prevenuto. Può darsi. Io però non faticai a credere alle parole di Maria. Anche perché la conseguenza assurda che derivò da questo disturbo venne strumentalizzata dal proprio marito. Il quale, anziché aiutarla a superare il problema, con pazienza, gentilezza e magari una seduzione progressiva, oppure portandola da altri medici (siamo a Roma negli anni ’90; la psicanalisi è ancora di moda), che cosa pensò di fare? La sera, dopo aver cenato con la bella ma problematica mogliettina… si alzava e se ne andava a dormire nella casa dei propri genitori. Andava a dormire da mamma!

Non ricordo più quanti anni durò quel matrimonio. So solo che fu un inferno per Maria che non trovò altre strategie che intensificare le crisi ipocondriache nelle quali oramai era diventata maestra. Come dicevo, non ricordo quanti anni durò il suo matrimonio. È un dettaglio insignificante. So solo che a un certo punto i due coniugi si separarono e lei restò a vivere con la vecchia governante che l’aveva sempre seguita fin da quando era bambina e con la quale aveva sviluppato uno strano e complesso maternage.

Fu a questo punto, intorno ai suoi trentacinque anni, che Maria incontrò il nuovo compagno di vita; l’uomo insieme al quale l’avevo conosciuta in quella famosa sera, a cena. Stando alle sue parole, i primi anni passati con questo nuovo amore furono i primi e unici momenti felici di tutta la sua vita. Il nuovo compagno, con pazienza e disinvoltura, la introdusse infatti alla capacità di avere rapporti sessuali completi, quasi soddisfacenti, riempì la sua vita di attenzioni e la fece accogliere benevolmente nella propria famiglia d’origine. Per la prima volta in assoluto Maria si sentì riconosciuta e visse alcuni anni senza cadere in manifestazioni morbose conclamanti. Certo… la piena orgasmicità le era preclusa per via dei tabù introiettati fin da piccolissima e le mancava una vera e propria realizzazione sul piano personale e professionale ma, stando ai suoi ricordi, era stata profondamente soddisfatta e felice.

Non saprei dire con certezza cosa fece precipitare le cose: il mio sospetto si dirige verso la decisione che Maria e il nuovo compagno presero, ad un certo punto, di lasciare l’appartamento da scapolo di lui, dove avevano vissuto fin dall’inizio, e di trasferirsi in uno degli appartamenti di un grande palazzo che era di proprietà del padre di Maria. Non ne sono sicuro, ma è plausibile che ricadendo sotto la giurisdizione simbolica del proprio padre, Maria perdette il precario equilibrio che aveva appena conquistato. Le crisi ricominciarono. Di nuovo l’evidente teatralità le inimicò i nuovi affetti. La spirale negativa aveva ripreso a girare. Maria si stava orientando a credere a chissà quale fantomatica malattia organica che nessun medico, per incompetenza, superficialità e ignoranza – asseriva lei – sarebbe stato in grado di diagnosticare. E lei, che era già una profonda conoscitrice di tutti i farmaci possibili e immaginabili, nonché dei loro effetti (identificazione e competizione con la figura paterna), aveva cominciato a studiare anche patologia medica, inquinando il tutto con informazioni dilettantesche e distorte provenienti da Internet.

Fu a questo punto della sua storia che la conobbi e iniziai con lei un percorso psicanalitico. Due cose mi furono subito chiare: la sua ipocondria isterica era nel contempo un richiamo di attenzione e una dimostrazione aggressiva dell’incompetenza del proprio padre. Era un messaggio duplice e paradossale: “Aiutatemi perché soffro terribilmente! Siete degli incapaci, nessuno è in grado di guarirmi!”

Mi resi conto immediatamente che mai e poi mai avrei potuto attaccare frontalmente i suoi disturbi, perché una parte significativa di lei si identificava in essi. Il grido: “Aiutatemi, incompetenti!”, era una componente della sua stessa personalità. Nessuno avrebbe mai potuto aggredirla senza aggredire, in contemporanea, una parte significativa di lei. La “malata inguaribile” era una figura accusatoria irrinunciabile della sua più profonda personalità.

Salvo che… forse… un transfert fortissimo. Che però non sembrava realizzarsi.

Perciò l’idea di farle prendere coscienza di tutto questo era da scartare. Almeno all’inizio.

Me la cavai arrampicandomi sugli specchi e proponendole l’idea che in lei ci fossero “due Marie”: una sana, fiduciosa, libera e felice che avrebbe potuto realizzare qualunque progetto. L’altra malata, una sorta di indesiderata ospite la quale però, spesso, troppo spesso, si impossessava delle chiavi di casa e la faceva da padrona. Sapevo che stavo giocando con il fuoco: se soltanto avesse subodorato che non credevo nella consistenza organica dei suoi sintomi avrebbe cominciato a fare braccio di ferro anche con me.

Per fortuna fu lei stessa, ad un certo punto, che spostò l’attenzione sulla sua vita sessuale intima, raccontandomi come molto spesso fosse tormentata da sogni in cui delle entità diaboliche avrebbero voluto costringerla alla prostituzione, ad amplessi lascivi oppure a vere e proprie orge sfrenate. In sogno si vedeva costretta ad essere una donnaccia, una sorta di baccante svergognata e impudica che avrebbe potuto abbandonarsi a qualunque sfrenatezza.

Fui colpito dalla somiglianza incredibile dei suoi sogni con quelli riportati da A. Lowen nel suo celebre libro: “Il tradimento del corpo”. In esso si trovano descritti decine di sogni di giovani pazienti bloccate ed inibite nella propria vita sessuale per colpa di una educazione bigotta o di traumatiche esperienze. I diavoli – scrive Lowen – rappresentano la parte vitale (o istintuale o libidica) della personalità che è stata scissa e poi condannata; e che in sogno riemerge, compensando il rigore fobico con dissolutezze terapeutiche.

Io ero affascinato dai sogni di Maria, ma sentivo che lei mi seguiva solo fino ad un certo punto. Peccato! Perché una interpretazione minuziosa e l’elaborazione delle pulsioni contenute in uno solo di quei sogni avrebbe potuto scardinare tutte le sue difese. Ma non riuscivo a coinvolgerla emotivamente. Non riuscivo a capire se e fino a che punto – anche se solo inconsciamente – Maria non mi avesse già inserito tra coloro dei quali avrebbe dimostrato l’incapacità e l’inefficienza.

Si avvicinavano le ferie estive e lei, che frattanto non aveva mai smesso di prendere psicofarmaci, mi svelò che pensava ad un altro periodo di degenza in casa di cura. Tentai di oppormi, e lei mi confidò che la psichiatra che la seguiva, in collaborazione con non so quale luminare, le avevano diagnosticato un disturbo bipolare per il quale un periodo di ricovero sarebbe stato consigliabile.

Le chiesi se avesse desiderato che io parlassi con la psichiatra che seguiva il suo caso. Alla sua risposta affermativa mi feci dare telefono e indirizzo, la contattai il giorno successivo e mi presentai al suo studio. Ero furioso.

Quando fummo a quattr’occhi, trattenendo a stento la mia rabbia le chiesi se davvero credesse a una diagnosi di distimia bipolare. La vidi tentennare. Allora le chiesi se a medicina, specializzandosi in psichiatria, non si studiassero più le Grandi Isterie del passato. Accusò il colpo con eleganza invitandomi a esporre i miei convincimenti. Le elencai i sintomi patognomonici presentati da Maria e le sintetizzai la sua anamnesi. Schiumavo dalla rabbia. Ma lei mi bloccò:

« Ah… che sollievo dottore. Devo dirle che anch’io sospettavo una cosa del genere. Però, sa… io applico le istruzioni del Prof. Tal dei Tali. È un luminare. Non me la sentirei di contrastarlo. E poi forse… per certi aspetti specifici della psichiatria…».

« Ma che cosa sta dicendo? Le cose possono essere due: o il suo luminare è un incompetente, oppure trae un vantaggio economico nel proporre un ricovero alla sua paziente. E non saprei delle due che cosa augurargli ».

La psichiatra si irrigidì. Ci lasciammo con la sua promessa che mi avrebbe chiamato e fatto sapere. Come è ovvio non lo fece. E l’estate, quando io partii per le mie vacanze, Maria entrò in casa di cura. Privata!

Tuttavia quella volta non si trovò bene e molti mesi dopo tornò nel mio studio. Le sue crisi erano riprese e così pure le sue grandi teatralizzazioni. Ciò nonostante non mi offriva grandi spunti di introspezione. Il nostro rapporto languiva. Si trascinava. Credetti allora di usare quel poco di carisma che mi concedeva per spingerla ad abbandonare l’ozio nel quale viveva esortandola a trovare una qualunque attività pseudo-lavorativa. Funzionò. Mi dette ascolto e si sforzò di dare una mano a una vecchia amica che gestiva una galleria d’arte.

Fu sempre in quel periodo che, di sua spontanea volontà, prese a parlarmi di quanto avrebbe desiderato avere un figlio e di come questo desiderio le fosse impedito dai farmaci che assumeva. Io registrai la notizia. Ci rimuginai sopra un bel po’. Valutai i pro e i contro… ma alla fine decisi di schierarmi con questa parte progettuale della sua personalità. Ripeto: sapevo che c’erano delle incognite, ma reputai che “il rischio valesse la candela”.

Cominciai a provocarla:
« E perché no? Maria… potremmo chiedere una sospensione provvisoria dei farmaci più invadenti. Potresti farti seguire passo dopo passo, in modo da non compromettere la gravidanza. Perché no? ».
« Non parli sul serio - mi diceva le prime volte - non potrei fare a meno dei farmaci».
« Tu dici? Io penso di sì! Cosa vuoi che siano nove mesi se il tuo desiderio è così grande? ».
« Non credo di potercela fare » rispondeva lei. Ma si vedeva che era tentata.
« Tu hai una grande capacità di soffrire - la lusingavo io - per un figlio, magari… potresti stringere i denti. Nove mesi; non sono poi tanti. E poi, dopo, avresti qualcuno da amare e per il quale lottare ».

Non saprei dire se fui solo io o se il mio intervento fu uno dei tanti che contribuì alla sua scelta. Fatto sta che, seguita da un medico che le controllava il dosaggio di alcuni medicinali, Maria si preparò alla maternità e nel giro di pochi mesi rimase incinta. Con l’evento, però, disertò di nuovo il mio studio. La rividi per caso, molti mesi dopo, quando la bambina era nata, a casa dei nostri amici comuni. Tramite loro seguii le sue vicende. Seppi così che all’inizio le cose erano andate abbastanza bene, anche se nessuno della sua famiglia di origine era andata a trovarla. Un altro smacco indelebile. I primi mesi con la bambina, comunque, furono tranquilli. Ma a seguire ricominciarono le crisi. Sempre più violente. La rividi nel mio studio due o tre volte, in maniera saltuaria e occasionale, e venni così a sapere che si era convinta di avere una malattia organica rarissima, che nessuno riusciva a diagnosticare, sempre per incapacità e incompetenza.

La sua condizione interiore mi faceva molta tenerezza. E fu in quel periodo che fantasticai per lei una terapia estrema: se quello che io sospettavo fosse stato vero, e cioè che nelle crisi esibite da Maria era contenuto sia il desiderio inconscio di un riscatto affettivo mai realizzato, sia la dimostrazione della incompetenza della categoria di professionisti alla quale apparteneva il proprio padre, se tutto ciò fosse stato vero l’unica speranza si sarebbe potuta riporre in un Grandioso Gioco di Prestigio.

Tra le mie specializzazioni quella certamente a me più cara è sempre stata l’ipnosi. Non tanto per l’uso che ne faccio quanto per l’orizzonte conoscitivo che mi ha aperto. Durante il corso, che avevo frequentato quindici anni prima presso l’istituto del C.N.R., un chirurgo americano ci aveva mostrato la registrazione di alcune finte operazioni chirurgiche durante le quali il paziente veniva sedato, tagliato solo in superficie, esposto ai commenti positivi dei chirurghi – “Tutto bene, abbiamo risolto il problema, l’operazione è ben riuscita” – e poi ricucito come se fosse stata eseguita una vera operazione. La percentuale di guarigioni a seguito di queste “finte” procedure era più che significativa. Ricordo che la cosa mi aveva affascinato.

Perciò fantasticai di riunire e mettere d’accordo tutte le persone affettivamente vicine a Maria; di assicurarmi la complicità di alcuni miei amici medici consenzienti; e far risultare a Maria, dopo esami complicatissimi, di avere un qualche rarissimo tumore al cervello. Finalmente il mistero delle sue crisi sarebbe stato svelato. Poi il ricovero, e la preparazione per una complicatissima operazione. Il taglio di tutti i suoi capelli (le implicazioni simboliche di questo taglio di capelli sarebbero state straordinarie) e, infine, la finta operazione, come da manuale. Al suo risveglio, con i punti in testa, tutte le persone a lei care riunite a rincuorarla e a scusarsi per non aver compreso prima la verità e poi la gravità del suo stato.

Adesso qualcuno penserà che stavo solo sognando. Non è così. Una sera invitai a cena due miei amici medici – un chirurgo e un’anestesista – con i quali avevo fatto il corso di ipnosi. Esposi loro il caso e gli chiesi se sarebbe stata percorribile una procedura del genere. Si complimentarono per la mia idea, ma mi dissuasero subito dicendo che in Italia una cosa del genere non sarebbe stata neanche immaginabile. Troppe le norme e le garanzie legali e le informative al paziente che avrebbero dovute essere firmate e controfirmate. Perciò, a meno che non avessimo voluto programmare un lungo periodo da trascorrere insieme nelle patrie galere, della cosa sarebbe stato meglio che mi fossi dimenticato.

Peccato. Io resto convinto che con la collaborazione di tutte le persone implicate in questa storia (compreso lo scellerato padre di Maria), molta spregiudicatezza terapeutica e in un paese diverso dall’Italia, questa “terapia estrema” avrebbe anche potuto funzionare. Resto convinto, in tutta onestà, che non ce ne sarebbe stata nessun’altra praticabile.

Tornai a perdere i contatti con Maria. Ogni tanto i nostri amici comuni mi ragguagliavano e seppi così, ad un certo punto, che lei aveva voluto un ennesimo ricovero.

La rigirarono in tutti i modi possibili e immaginabili. TAC, analisi cliniche sofisticatissime, risonanze magnetiche, eco doppler… Non le trovarono nulla, com’era logico che fosse, ma i farmaci somministrati, comunque la tenevano tranquilla.

Forse troppo! Maria morì così, durante la notte, sembra per un cedimento cardiaco. In clinica. A soli quarantatré anni. Forse, come si suol dire in casi simili, adesso avrà trovato quella pace che aveva cercato invano per tutta la sua breve vita. Forse… Può darsi!

A me, comunque, nonostante il fatto di essere consapevole che se Maria fosse stata in grado di una maggiore partecipazione emotiva nel nostro rapporto terapeutico, di sicuro qualche risultato in più lo avremmo potuto raggiungere, a me, comunque dicevo, resta il rammarico umano di non essere riuscito a fare per lei più di quanto sia riuscito a fare. Mi resta la speranza che la figlia possa realizzare quella pienezza di vita che a lei fu negata.

Ma è certo che molti altri (a partire dai suoi genitori e per finire con alcuni dei suoi medici curanti) dovrebbero sentirsi imbarazzati la mattina, guardandosi allo specchio; e dovrebbero sperare che nessuno mai, magari in un giorno lontano e in un’altra dimensione, possa essere legittimato a chiedere loro ragione di quanto fecero nei confronti di Maria.

 

Tratto dal libro di Piero Priorini "C’era una volta la psicanalisi. L’epopea di Maria e Mario Rossi", Edizioni Psiconline

 

 

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