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Sensi di colpa

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accettazioneMarcel Proust andava a letto presto. Col passare degli anni, per me, invece, è sempre più difficile svegliarsi in orario per andare a lavorare. Soprattutto il lunedì è dura. Il primo conflitto interiore della settimana lo sperimento già a letto, ancor prima di essere del tutto sveglio.

Una parte di me continuerebbe tranquillamente a poltrire, un’altra mi ricorda che già alle nove ho degli appuntamenti e tocca alzarmi. Vince sempre questa seconda parte, legata al senso del dovere, dono di un ingombrante Super-Io. Invecchiando, però, il match si fa sempre più incerto. Ad inizio settimana, poi, concedendo una piccola gratificazione al mio lato più attento ai piaceri della vita, ho inserito prima del lavoro una sosta al bar per un caffè, utile anche ad essere un po’ più lucido. Gli avventori in genere parlano di calcio, con apparente competenza. Io li ascolto, non li contraddico, resto in silenzio. Non è solo timidezza: tifo per un’altra squadra.

Questa mattina, appena arrivato in Ospedale, verso le otto e mezzo, trovo subito una strana confusione davanti alla porta della mia stanza. Ci sono un infermiere dell’accettazione ed un giovane, mai visto prima, in stato di forte agitazione. L’infermiere mi spiega che il tizio era arrivato in ospedale alle cinque del mattino, dicendo che voleva ammazzarsi. Il medico di guardia aveva provato a sedarlo e lo aveva convinto ad aspettare che arrivasse uno psicologo. “Dottò, secondo me, ave bisogno ’e vuie” dice con fare astuto l’infermiere il quale approfitta del mio arrivo per andarsene velocemente, lieto di avermi “scaricato il pacco”. Lo ringrazio per la cortesia, con un’ironia che naturalmente lui non coglie.

Nell’ospedale in cui lavoro, trattandosi di una struttura specialistica, non c’è un Pronto Soccorso e quindi questa modalità di primo contatto con me è piuttosto rara. In genere, incontro i pazienti secondo appuntamenti prefissati e concordati ma, di tanto in tanto, capita di lavorare sulle emergenze, quando mi viene richiesto di intervenire con persone in preda a crisi acute.

Apro la porta della mia stanza, faccio entrare Gennaro - così si chiama il nostro eroe - metto nell’acquario il cibo per i pesci, poso la borsa, mi accomodo dietro la scrivania, come sempre piena di carte sparse alla rinfusa, accendo il computer ed invito il paziente a sedersi di fronte a me. La mia è una lentezza calcolata. Vorrei trasferire al paziente un senso di calma, di tranquillità ma quasi mai basta fare le cose con comodo per riuscirci. Lui, un uomo sui trent’anni grande e grosso, rimane in piedi, continuando a muoversi nella stanza, senza fermarsi mai ed inizia a raccontarmi la sua storia. È felicemente sposato da circa tre anni, ama sua moglie, non hanno figli ma “ci stanno provando” da un po’ di tempo.

Afferma di essere contento del suo lavoro: “non gli manca niente”. Il suo problema è che ha l’Aids, lo ha scoperto da poco, è troppo spaventato e per questo vuole morire. In realtà, piano piano riesco a capire: lui è convinto di aver contratto l’infezione, si è sottoposto al test più volte, di frequente presso il nostro Ospedale e, sebbene il risultato fosse sempre negativo, ciò non riesce più a rassicurarlo sul proprio stato di salute. Inoltre, sta perdendo peso e nella giornata appena trascorsa è comparsa un’allergia sulla pelle. Sempre più intimorito, si è convinto che la dermatite rappresenti la conferma definitiva di quanto le sue paure siano fondate ed i test medici sbagliati. Disperato, era uscito di casa la sera precedente, si era messo in auto con l’idea di ammazzarsi ma non ne aveva avuto il coraggio. Ha guidato tutta la notte e, all’alba, è venuto in Ospedale. Ora capisco cosa faccia qui: si è recato nel luogo dove, effettuando il test, aveva ricevuto maggiori rassicurazioni e dove sperava di trovare aiuto per il suo caso.

In effetti, in virtù del contesto specifico ove lavoro, ho acquisito una certa competenza con questo genere di pazienti, definiti dai colleghi americani worried well (preoccupati sani). Si tratta di persone ipocondriache convinte di aver contratto l’infezione da Hiv, le quali si sottopongono di continuo al test, ricevendo un conforto solo momentaneo quando ne apprendono l’esito negativo, ma dopo un po’ l’ansia riprende a galoppare e si autoconvincono di nuovo di essere ammalati. Tale credenza è rafforzata da pensieri razionali (la medicina può sbagliare, possono essere state scambiate le provette, esiste un periodo finestra in cui gli esami risultano negativi ma il virus è presente in quantità non rilevabile, ecc.), ma in questo specifico tipo di paziente, in realtà, l’ipocondria, ovvero la paura esagerata delle malattie, è alimentata da una problematica che attiene sempre, nei piani profondi, alla sfera sessuale.

Con pazienti affetti da tale sintomatologia, nel corso del tempo, ho sviluppato un mio personale approccio, che ho verificato possedere una certa efficacia. Tuttavia, non essendo tale patologia molto diffusa, la mia fama mondiale è ancora scarsa e sinora non sono stato ancora candidato a quel noto Premio per la Medicina che si consegna a Stoccolma.

Chiedo a Gennaro, con fare fintamente ingenuo, se per caso lui fosse un medico o un biologo e se avesse conoscenze approfondite di anatomia umana. Egli, un po’ sorpreso, dice di avere la terza media e di fare l’elettrauto come professione. “Ah – faccio io – quindi lei di medicina non capisce niente, proprio come io sono completamente ignorante di motori. Se la mia auto fa un rumore strano (questo è uno dei miei esempi più frequenti), mi spavento e poiché non ne capisco proprio niente posso pensare che il motore sia rotto e la macchina sia da buttare. Magari si è solo spostato il tergicristallo, ma la mia incompetenza della materia specifica mi fa produrre teorie assolutamente inesatte e, talvolta, catastrofiche. Sa, in realtà, io cosa dovrei fare?”, chiedo al paziente, sempre più stupito da questo genere di conversazione. “Non lo so”, mi risponde un po’ confuso ed io proseguo: “È semplice, devo trovare un bravo meccanico di cui fidarmi. Deve essere onesto perché altrimenti, approfittando della mia poca dimestichezza con le auto, può farmi credere che ci sia un danno gravissimo e chiedermi un sacco di soldi per sbrigare un lavoro semplicissimo che invece richiede solo pochi minuti di attività. Io sono costretto a idarmi, ma non sono in una situazione completamente passiva: ho il potere di stabilire con attenzione il mio criterio per scegliere un bravo meccanico”. Sto dicendo al paziente quanto, sebbene convinto di avere l’Hiv, sia molto probabile che la sua diagnosi sia sbagliata, in quanto frutto di incompetenza. Egli avverte una sofferenza reale, ma non per questo è abilitato a porre diagnosi, neanche a se stesso. È vera la sua sintomatologia, ma è molto probabile che sia falsa la sua diagnosi. È vera la sua sofferenza, anche fisica, ma ciò non significa che deve attribuire veridicità alle teorie pessimistiche prodotte dalla sua mente, in preda al panico, riguardo alle cause ed alle conseguenze dei suoi sintomi. Questo è l’errore tipico dell’ansioso: confondere una percezione somatica (vera) con una teoria esplicativa al suo riguardo (falsa)! Gli sto parlando anche della necessità di fidarsi di qualcuno. Deve riconoscere il suo bisogno di farsi aiutare da un esperto, proprio come me che, se provassi a riparare da solo la mia auto, sicuramente farei solo danni più gravi.

In risposta al mio approccio, Gennaro si siede, appare un po’ più tranquillo ed inizia a dare maggior credito alle mie parole. Io pure mi rilasso un po’ e continuo con il copione da me elaborato con i worried well. “Lei sicuramente pensa di essere l’unico in questa situazione – gli dico – ma in realtà sono frequenti le persone che si convincono da sole di avere l’Aids. Stanno male, si sottopongono al test di continuo e nonostante il risultato sia negativo, continuano a vivere nel terrore. Pensi che solo questo mese sono venute qui già tre persone come lei, una proprio l’altro giorno” - dico mentendo parzialmente sui numeri e poi gli chiedo: “Lei quante volte si è fatto il test?” “13 volte in un anno e mezzo!” mi ha risposto lui, quasi con un certo orgoglio.

Con fare professionale ed un po’ saccente, vestito di autorità (nel senso che indosso la giacca fatta a mano dal mio sarto, tale Autorità Giovanni) snocciolo a Gennaro le mie statistiche, cercando nel contempo di usare parole semplici: “Qui in ospedale, io lavoro al 90% con persone davvero affette dal virus Hiv e che hanno bisogno di sostegno psicologico per convivere con la malattia, ma c’è un altro 10% di pazienti ugualmente sofferenti, pur non avendo contratto l’Aids ma terrorizzati per la paura di essere ammalati. Le persone di questo gruppo fanno parte inevitabilmente di una di queste tre categorie: hanno avuto una relazione extraconiugale e sono pentiti; hanno avuto un rapporto omosessuale e non accettano la propria identità sessuale oppure hanno avuto rapporti con prostitute e sono spaventati da tale inclinazione”. “Io ce l’ho tutte e tre!” mi rivela uno sbigottito Gennaro il quale, a questo punto, sentendosi scoperto, è certo di trovarsi di fronte ad uno specialista bravissimo e finalmente mi racconta la sua storia.

Mi ha già detto di essere felicemente sposato e di amare molto sua moglie. Tuttavia, l’anno scorso, un sabato pomeriggio, accettò la proposta di alcuni amici di andare dai “travestiti”. Mi spiega di averli seguiti un po’ per curiosità, un po’ per il timore di essere preso in giro dai suoi compagni, veterani di questo genere di pratica, se avesse confessato la sua inesperienza. Scelta/o la/il partner, si recò in una camera di un triste albergo nei pressi della Stazione. Prosegue il racconto: “Dopo i primi preliminari e baci, Dottò, si spoglia completamente, mi fa toccare il suo membro e mi propone un rapporto orale. Io mi divincolo, gli meno uno schiaffo e grido: Schifoso! Per tutta risposta mi chiede dei soldi, io gli dò solo 10 euro, getto la banconota a terra, poi meno un altro pugno, gli faccio uscire del sangue dalla bocca e scappo via. Da allora sono proprio convinto di avere l’Aids, sono dimagrito ben 10 chili. Da un anno non faccio più l’amore con mia moglie perché ho troppa paura di contagiarla, questo proprio non me lo perdonerei. Ho letto che è molto pericoloso. La poverina mi chiede cosa c’è che non va, io mi sono inventato una storia, le ho raccontato di aver subito una rapina nell’officina e di essermi spaventato poiché i malviventi mi hanno puntato una pistola al collo. Ho avuto paura di morire e perciò sto male, a causa del turbamento. Ma lei è una donna troppo intelligente, ha capito che si tratta di una scusa ed è convinta che io abbia un’amante e per questo motivo non desidero più stare con lei. Io mi sento male anche per questo, mia moglie soffre solo perché mi ama, ma io non posso proprio dirle la verità. Non posso neanche usare il preservativo perché progettavamo di avere un figlio…”

Dopo questa “confessione” gli chiedo se si sente meglio, gli ho chiarito le modalità di trasmissione del contagio, ricordandogli che l’infezione non può trasmettersi mediante un bacio e dunque, in realtà, lui non può aver contratto il virus perché in assoluto non vi è stato neanche un comportamento a rischio. In effetti, in modo irrazionale, Gennaro teme di essersi contagiato a causa del sangue uscito dalla bocca dell’occasionale partner, che gli ha macchiato le mani e la camicia. (Tra me e me, penso al malcapitato travestito, percosso nonostante avesse avuto un comportamento professionalmente impeccabile per quelle che sono le aspettative abituali dei suoi clienti, ed agli “incerti” del suo mestiere…). Concludo che può smettere di sottoporsi al test, non deve curare una malattia organica da cui non è affetto, mentre al contrario può beneficiare di qualche colloquio psicologico. Accenno solo brevemente alla mia teoria in proposito, mentre con pazienti di maggior livello culturale e in una fase più avanzata del rapporto terapeutico chiarisco più dettagliatamente il significato simbolico della fantasia di essere ammalati.

Possiedo la convinzione secondo cui l’idea di aver contratto il virus svolge per il paziente una duplice funzione: 1) Protegge la persona dal reiterare un comportamento verso cui è attratta da un lato, ma che è rifiutato da un’altra parte di sé (se mi convinco che questa azione mi fa stare tanto male, certo non la ripeto più). 2) Soddisfa, facendo pagare un dazio, il suo bisogno autopunitivo di dover espiare una colpa, conseguente al conflitto interno (mi merito di star male perché ho sbagliato). Così, sentendosi male evita un comportamento che una parte di sé disapprova e nel contempo si punisce per gli errori pregressi. Varia in ciascun paziente la combinazione tra bisogno protettivo e bisogno punitivo, ma sono spesso rintracciabili entrambi, anche se in percentuali diverse.

A questo punto della seduta, entra l’infermiera del mio Servizio per avvisarmi che ci sono altre persone in sala d’aspetto in attesa di incontrarmi. Con un gesto veloce della mano, conoscendo la mia tendenza anarchica a sconvolgere ogni regola, mi ricorda quanto sia opportuno rispettare gli orari degli appuntamenti prefissati. Con un sorriso d’intesa, le faccio intendere di aver recepito il messaggio. Gennaro dice di sentirsi meglio, perché per la prima volta ha trovato il coraggio di raccontare a qualcuno per intero la sua disavventura, è rassicurato, non pensa più di ammazzarsi. È tranquillizzato, avendo ascoltato da me una versione nuova ed assolutamente diversa del suo problema in grado tuttavia di dare un senso al suo disagio. Penso si sia sentito compreso, riconoscendosi abbastanza nelle mie parole. Per adesso, la mia autorevolezza appare credibile e può tirare un respiro di sollievo in quanto il suo incubo si sta sgonfiando. Decido di dargli fiducia e penso che può allontanarsi da solo, senza correre rischi. In ogni caso, gli comunico la mia disponibilità ad incontrarlo di nuovo a fine mattinata, per sapere come sta, se lo desidera. Mi ringrazia e mi garantisce di ritornare dopo qualche ora.

Quando va via, avverto la stanchezza ma sono soddisfatto. Per me, per questa mattina potrebbe bastare (il colloquio è durato un paio d’ore) e mi dedicherei volentieri alla posta elettronica. Però, ci sono un paio di persone in attesa da un bel po’ di tempo e quindi mi rimetto al lavoro.
Il paziente è ritornato verso le due, confermandomi di stare molto meglio. Mi ha portato un bel caffè caldo, per mostrarmi la sua gratitudine.

Racconta di esser passato per casa a tranquillizzare la moglie, ha quasi ripreso a fare l’amore con lei, dopo la forzata astinenza. Di tanto in tanto nella mattinata si è ripresentata la paura dell’Aids, ma si è fatto forza ricordando le mie parole. Comincia a vedere con maggiore distanza ed obiettività i suoi comportamenti, inserendo elementi di autocritica: “Sono stato proprio un fesso, eh dottò…” Il colloquio prosegue raccontandomi un po’ anche della sua famiglia di origine e si commuove al ricordo della morte recente di una zia materna, vissuta con i suoi genitori ed amata da lui come una seconda madre. Avrebbe voluto esserle stato più vicino e si rammarica per la propria superficialità. In genere, nella storia recente dei pazienti ipocondriaci vi sono stati lutti o esperienze di malattie gravi ed invalidanti a cui essi hanno assistito. In questo caso, anche il padre, in passato alcolista e con cui Gennaro ha sempre avuto un rapporto conflittuale, ha seri problemi di salute in quanto affetto da tempo da “demenza senile” ed è ricoverato da diversi anni in una casa di cura. Egli, al contrario del fratello, non lo va a trovare quasi mai, avvertendo di incontrare “un muro con cui è impossibile parlare”, per lui emotivamente impossibile da reggere. Anche per questo, un po’ si sente in colpa.

Prima di andare via, infine, mi ha regalato un’autentica perla di saggezza, che, sebbene sia frutto di un malinteso linguistico, rivela come egli abbia meditato su quanto ci siamo detti nei nostri due colloqui.
- “Parlando con voi, Dottò, ho capito anche un’altra cosa. Siete stato proprio voi, non è vero, a fare scrivere quella parola, così grande, all’ingresso dell’ospedale? Avete fatto benissimo!”
- “Mi scusi – dico io, stavolta davvero senza comprendere cosa voglia dirmi – a quale parola si riferisce?”
- “Come no. Quando venivo qui a fare il test mi chiedevo sempre cosa significasse aver messo quella parola scritta così grossa all’ingresso. Non capivo cosa c’entrasse. Ma adesso, facendo i colloqui con lei, ho imparato qual è la cosa più importante ed è giusto averlo scritto così in grande. Ha proprio ragione, vale per tutti gli ammalati che vengono qui! Devo ricordarmene sempre anche io!”

Gli dico di sì, che concordo con lui, lo saluto ma in realtà non ho voluto contraddirlo. In effetti, non ho capito per niente cosa volesse dire, poiché non riesco a ricordare la parola scritta all’ingresso dell’ospedale. Prima di congedarlo, fissiamo un appuntamento per la prossima settimana.
Finita la giornata di lavoro, sono uscito con l’auto per tornare a casa e mi sono fermato davanti all’ospedale, curioso di vedere cosa ci fosse scritto all’ingresso. Non ci avevo mai fatto caso, lo confesso, sebbene ci passi davanti tutti i giorni da un bel po’ di tempo. Sapete cosa si legge, a caratteri cubitali sopra l’uscio della porta principale? ACCETTAZIONE.

 

copertina vitoTratto dal volume Affetti speciali. Uno psicologo (si) racconta di Alberto Vito (Edizioni Psiconline) LUNEDI’ – SENSI DI COLPA pag. 13

Alberto Vito, Psicologo, Psicoterapeuta familiare, Sociologo. Dirige l’Unità Operativa S.D. di Psicologia Clinica presso l’A.O.R.N. Ospedali dei Colli (NA). E’ stato Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Napoli per oltre 10 anni; Componente Commissione Nazionale per la lotta contro l’Aids presso il Ministero della Salute dal 2002 al 2006; Supervisore didatta dell’Equipe Inter-Aziendale di Terapia Familiare ad Ancona presso la Clinica Psichiatrica dell’Università Politecnica delle Marche dal 2001 al 2009.
Ha svolto attività formativa e didattica presso Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Familiare, Corsi di Mediazione Familiare, Master di Psicologia Giuridica ed attività di supervisore clinico in diversi contesti pubblici e privati. Attualmente è didatta della Scuola Romana di Psicoterapia Familiare.
Autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche, inerenti la terapia familiare, la psicologia giuridica e la psicologia ospedaliera, tra cui i volumi: “La perizia nelle separazioni. Guida all’intervento psicologico” (F.Angeli, Milano, 2009) e “Vicende familiari e giustizia” (Ed. Sallustiana, Roma, 2005). Collabora con riviste nazionali di salute.

 

 

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