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Aggressività: sintesi dei contributi sviluppati dalla psicologia

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L’aggressività è oggetto di interesse e di studio della psicologia da più di un secolo e in questo lasso di tempo sono state sviluppate e sistematizzate diverse teorie ed ipotesi sul comportamento aggressivo umano.

AggressivitàQuesto interesse, all’interno della comunità di psicologia, storicamente si è mosso in ordine sparso e i vari autori spesso hanno lavorato in solitudine concettuale, prettamente nel loro alveo meta-psicologico di riferimento, in tempi differenti e su particolari diversi del comportamento aggressivo.

Ad oggi, pertanto, l’esito di questo interesse della psicologia ha determinato un contesto nel quale vi è una ricca tradizione di ricerca sull’aggressività e molte teorie ed ipotesi sul suo funzionamento, ma senza un “locus” nel quale questi studi possano ritrovarsi tutti (esempio, non è definita una psicologia dell’aggressività), generando per questo un quadro punteggiato e disomogeneo di conoscenze sull’argomento, che ne limita la possibilità di sfruttamento finalizzato a ridurre i comportamenti aggressivi e violenti nella società.

Questo lavoro si pone quindi l’obiettivo di sistematizzare in modo sintetico gli studi che la psicologia ha condotto sull’aggressività, a partire dalla fine dell’ottocento fino ai giorni nostri, con l’intento ultimo di creare uno strumento (questo lavoro) che in modo rapido possa dare un quadro d’insieme ed ordinato sui principali contributi che la psicologia ha sviluppato per comprendere il comportamento aggressivo.

In questo senso, crediamo che questo lavoro possa rappresentare un riferimento per coloro che desiderano avere una conoscenza di insieme su quanto svolto dalla psicologia per la comprensione dell’aggressività, oppure essere un punto di partenza per coloro che invece sono intenzionati a conoscere e ad approfondire questo argomento.

Il lavoro inizia con una parte introduttiva che tenta di definire alcuni punti importanti quando si parla di aggressività: i significati nella lingua italiana, la natura sociale o biologica dell’aggressività. A questa sezione ne seguono altre due: in una si contemplano i contributi sull’aggressività della psicologia sperimentale e nell’altra quelle della psicologia clinica-dinamica. In queste due parti sulla psicologia dell’aggressività - il cuore del lavoro - sono stati menzionati solo quegli autori che all’aggressività hanno dedicato i loro studi e che hanno scritto definendo aspetti importanti ed originali per i loro tempi. Sono solo accennati altri autori, mentre altri sicuramente mancano.

In fine e sempre nel tentativo di rendere utile questo lavoro, dopo una sintesi pensata dei contributi sviluppati dalla psicologia sul tema dell’aggressività, vi sono le conclusioni e la bibliografia. Le prime, vogliono dare un quadro generale su come attualmente è orientato l’interesse della psicologia che studia l’aggressività; mentre la bibliografia intende fornire, oltre ai riferimenti su quanto è stato scritto, un’ampia panoramica degli autori e delle loro opere dedicate all’aggressività.

Questioni di fondo ed inquadramento del tema

L’aggressività presenta delle caratteristiche che la rendono oggetto di interesse e di studio di molte altre branche della conoscenza diverse dalla psicologia. Solo a titolo d’esempio, l’aggressività, oltre che dalla psicologia, è ampiamente considerata da discipline quali: la sociologia, la biologia, la medicina, l’etnologia, l’etologia, la filosofia, il diritto, la biochimica…, rendendo questo aspetto assai studiato e molto ben conosciuto da numerosi punti di vista.

Rimanendo nell’alveo della psicologia, prima di entrare nelle varie teorie che hanno cercato di definire l’aggressività, crediamo importante affrontare tre aspetti preliminari che in vario modo percorrono questi studi: le definizioni linguistiche del concetto di aggressività; la natura biologica o culturale dell’aggressività; le differenze tra i concetti di aggressività, violenza e distruttività.

Dal punto di vista semantico, in generale aggressività significa un agito che tende all’ostilità e finalizzato alla diminuzione del potere dell’altro, e dalla “vittima” vissuto come minaccia al proprio potere (1).
Oltre ad una definizione semantica, però l’aggressività viene vista e studiata anche dal punto di vista del suo significato etimologico.

La parola aggressività deriva dal latino Aggredior e significava avvicinarsi o avvicinare e veniva usata spesso come sinonimo per indicare l’azione di accusare, di intraprendere, di assalire. Essa è formata dalla composizione di due parole Ad (moto a luogo) più gredior. Gredior a sua volta, deriva da Gradi, di origine celtica, che significava camminare, procedere per passi.
Da gredior derivano poi tutte quelle parole che sottolineano l’andare, la vicinanza, l’entrare in contatto, come ad esempio: In-gredior, andare dentro; Pro-gredior, andare avanti; Re-gredior, andare indietro; fino al nostro Ad-gredior, andare verso . Possiamo allora concludere da questa rapida analisi etimologica che la parola aggressività inizialmente significava procedere, avanzare, raggiungere i propri scopi e in essa non vi era un aspetto morale predominante, in quanto non prevedeva implicitamente un agito tendente all’ostilità, e a creare vittime.

Dunque, ritornando alla lingua italiana corrente, in generale il concetto di aggressività significa una qualità dell’azione che si determina dagli intenti che si hanno e dai risultati che ottengono. Questi possono essere una diminuzione del potere dell’altro (visione collettivista del significato, presente nella componente semantica del termine), oppure riuscire ad ottenere un risultato, un miglioramento personale senza privare gli altri del loro potere (visione individualista del significato, presente nella componente etimologica del termine).

Vedremo che nell’ambito della psicologia spesso il significato sottointeso è quello semantico - cioè la visione più collettivistica del concetto - a discapito del significato etimologico.
Per rispondere alla questione se l’aggressività sia socio-culturale o biologica-naturale, ci vengono in aiuto discipline come l’etologia, la biologia e la fisiologia medica, le quali, ognuna a suo modo indicano risultati che chiariscono come l’aggressività non sia totalmente ascrivibile alla natura e alle caratteristiche biologiche, né possa essere totalmente inscritta e fatta derivare dalla società-cultura. Per esempio, nel mondo animale l’aggressività (2) compare nei casi di difesa del territorio, difesa della prole, per accoppiarsi e per difendere il gruppo e le gerarchie al suo interno, mentre non esiste come finalità a sé come nell’uomo, ma solo come comportamento che tiene conto dell’ambiente e si attiva per mezzo di un vissuto proprio nell’ambiente e con l’ambiente.

Altri esempi su come l’aggressività si intrecci tra natura e cultura arrivano dagli studi sulla fisiologia umana, nei quali è chiaro come a livello biochimico e neurofisiologico l’aggressività non sia rintracciabile, visibile: non esiste un ormone o una zona del cervello o un muscolo né altro direttamente riconducibile all’aggressività.
Gli esperimenti condotti attraverso la somministrazione di alcune sostanze eccitanti (adrenalina, endorfine di sintesi…) a dei soggetti hanno dimostrato chiaramente il contributo del soma nei comportamenti aggressivi, in quanto tali sostanze facilitavano le espressioni aggressive.

È altrettanto vero che le stesse sostanze partecipano anche ad altri agiti, non aggressivi, come per esempio prendere un treno o nell’impegno su un compito: a parità di somministrazione di queste sostanze, se il soggetto è in un ambiente “pacifico”, egli non esprimerà aggressività. Pertanto, non è pensabile collocare l’aggressività unicamente in uno dei due poli (aggressività naturale o culturale), mentre sembra più veritiero che il sistema biologico funga più da supporto all’essere vivente che agisce in senso aggressivo all’interno di un preciso ambiente e tempo (società e cultura). Soma da una parte e sistema socio-culurale dall’altra, di volta in volta partecipano in misura diversa nello stabilire i vincoli e le opportunità che ha un soggetto aggressivo.

Un altro aspetto che si incontra trattando il tema aggressività è il suo rapporto con la violenza e con la distruttività, temi anch’essi molto studiati.
Questo rapporto non è costante, non sempre dove c’è violenza c’è aggressività o distruttività e viceversa, però il rapporto sussiste sia nel pensiero del senso comune, dal punto di vista fenomenologico e paradigmatico.
Invece violenza significa abuso della propria forza (fisica o per mezzo delle armi nel vocabolario) senza controllo, ed è sinonimo di aggressività (3) .

Il termine violenza deriva da vis, ovvero forza nelle lingue indoeuropee, ed è un concetto tipicamente fenomenologico che allude alla qualità del comportamento dal punto di vista dell’uso della forza, della potenza e del potere. Quindi allude ad un rapporto con l’oggetto, nel quale è evidente la sopraffazione, la violazione e il danno.
Quindi la violenza è “ogni costrizione di natura fisica o psicologica che provochi danno, sofferenza o morte di un essere animato” (Héritier, 1996) che, per la psicologia, viene mossa da una sottostante “dimensione” detta aggressività.
Il rapporto tra aggressività e violenza è fenomenico e paradigmatico, dal momento che si scorge e si distingue l’aggressività senza la violenza da una aggressività con violenza e dal momento che gli psicologi vedono nella violenza una delle diverse “figure” che può assumere l’aggressività.

Da un punto di vista fenomenologico si può facilmente osservare che se all’azione aggressiva non viene messo “un freno”, per esempio di tipo normativo, culturale, o contrapponendo altra aggressività, essa “scivola” nel comportamento violento, a riprova della continuità e contiguità dei due aspetti nell’agito umano (4) .
Da un altro punto di vista, il legame tra aggressività e violenza è evidente anche nell’ambito normativo quando, dovendo valutare la capacità di intendere e di volere di un imputato (il suo grado di libertà), si ragiona sulla dinamica delle sue motivazioni: quanto coscientemente ha voluto commettere violenza?
Questa motivazione alla violenza o meno (la capacità-libertà di averla e/o saperla gestire) viene chiamata aggressività; quanto più abbiamo una personalità pervasa da aggressività (per la legge, personalità inferma) tanto meno saremo liberi di gestirla e quindi di evitare di agire violenza.

Pertanto, considerata la vicinanza tra i due fenomeni, in virtù del fatto che l’aggressività spesso anticipa la violenza, e visto l’interesse dal punto di vista psicologico che si ha in questa sede, il punto di partenza -anche se solo si volesse comprendere la violenza - rimane comunque quello dell’aggressività, che fra l’altro riesce ad essere più avulso da considerazioni morali, attratte invece dal concetto di violenza.
In merito alla distruttività e al suo legame con l’aggressività e alla violenza, si possono aggiungere altre considerazioni.
Distruttività - dal latino destruere - significa disfare quello che era stato costruito (cioè fatto con struttura), accumulando strato su strato, il che, anche dal punto di vista del significato etimologico, rimanda ad un comportamento che è capace di eliminare “l’oggetto” precedentemente costruito (5).

La distruttività, argomento caro soprattutto alla psicoanalisi e alla psichiatria, è per questo contemplata come un indice di patologia dell’agito aggressivo - l’estremo male - soprattutto quando l’aggressività annulla potenziali e fisicità, quando l’aggressività non tiene conto delle economie psichiche (o più in generale delle energie), né dell’aggredito, né di chi aggredisce, al punto che l’azione aggressiva esaurisce il potere (le energie) di entrambi: aggredito ed aggressore.
Quindi si parla di distruttività, ritenendola una manifestazione dell’aggressività, nei casi in cui l’esito dell’azione (aggressiva) non “ri-crea”, non è generativo di nessuna “novità” fra i due poli in conflitto.

Da questi aspetti sopra menzionati ed altri qui non riportati, è evidente una stretta relazione tra aggressività, violenza e distruttività, ma per completezza ci sentiamo anche di sottolineare alcune differenze tra i tre concetti e i corrispondenti agiti. Per esempio, è evidente dalla natura etimologica delle tre parole che ci sono differenze: ognuna ha una diversa radice etimologica di derivazione e ognuna significa “cose” diverse; poi, un’altra osservazione è che non sempre la violenza è accompagnata all’aggressività, ed in fine, che la percezione della violenza ha una matrice trans-culurale (i segni della violenza sono universali), che invece non possiede l’aggressività (i cui segni sono più ancorati alla cultura di riferimento).

Chiariti questi fondamentali aspetti che parlando di aggressività vengono preliminarmente, è ora importante considerare cosa, su un piano descrittivo, in questo lavoro intendiamo per aggressività. A questo proposito sembra adeguata, perché attuale, la definizione di aggressività che dà Fornaro (Fornaro, 2004), che la definisce come “la disposizione intenzionale, consapevole o inconsapevole, a un comportamento lesivo (o potenzialmente lesivo) sotto il profilo fisico e psicologico, diretto a persone o animali o a cose, tale da essere – salvo rari casi – avversato dalle persone o da animali che ne sono l’oggetto, e condotto al fine di difendere o preservare l’integrità fisica o psicologica di sé (o del proprio gruppo), o al fine di affermare la supremazia fisica o psicologica propria (o del proprio gruppo).

Questa definizione, che lascia fuori problemi su natura-cultura, poli/mono fattorialità, e non specifica se l’aggressività debba essere intro o estero diretta, si radica sul significato semantico attuale della parola aggressività, ma include in parte anche il significato etimologico del termine. Di fatto riconosce all’aggressività un potere di autoaffermazione, pur non lasciando intendere che questo sia l’unico modo per potersi affermare: polemos non è il padre di tutto!

Sono poi importanti alcuni punti della definizione sopra riportata, soprattutto sul piano descrittivo e come aspetti analizzati dalla psicologia, quali per esempio: la disposizione intenzionale, che sottolinea la possibilità intrinseca della persona e della società di essere aggressivi; il sottolineare la lesività, che specifica come gli atti aggressivi che si contemplano sono solo quelli che rimandano ad un senso di minaccia e paura, escludendo quelli che, pur essendo atti aggressivi, non assumono significato di lesività; la direttività, cioè che gli atti aggressivi non hanno intermediari; l’avversione e quindi la difesa di chi subisce aggressività, che tende a tutelare l’integrità di un sistema interno che proprio l’aggressività minaccia.

La definizione di Fornaro ci permette di inquadrare l’oggetto “aggressività” dal punto di vista della psicologia, potendo così avere una definizione di riferimento nella quale leggere fra le righe i vari aspetti che la psicologia considera dal momento in cui parla di aggressività.
La sintesi degli studi prettamente psicologici che seguirà, parte da questo sintetico tentativo di inquadrare la questione. Essa, per evitare dispersività, percorrerà una sorta di via centrale della psicologia, suddivisa per comodità espositiva in studi della psicologia sperimentale e clinico-dinamica, però tralasciando quell’importante area di confine tra psicologia ed altre discipline, nella quale vi sono i contributi di scienze come la psico-fisiologia, la psicologia animale o la psichiatria.

L’aggressività dal punto di vista della psicologia sociale sperimentale

Gli studi psicologici sociali sperimentali sull’aggressività trattano l’argomento facendo uso della sperimentazione e dell’empirismo e da sempre sono più predisposti all’individuazione delle cause esterne - ambientali - che possono attivare comportamenti aggressivi.

La tradizione sperimentalista sull’aggressività può essere fatta risalire a Ivan Petrovic Pavlov e ai suoi studi rigorosamente scientifici sui cani e sulle secrezioni endocrine generate da stimoli ambientali particolarmente organizzati nelle sequenza temporale (Pavlov, 1936).
Pavlov in questo modo, anche con eleganza e rigore epistemologico, dà un grosso contributo alla psicologia, disvelando alcuni fenomeni di apprendimento – il Condizionamento Classico – che delineano un chiaro rapporto tra la modalità di presentazione degli stimoli ambientali e la capacità fisiologica di modificare le proprie risposte istintive, gettando così un primo ponte relazionale tra ambiente e soma.
Su questa linea di studi, Pavlov si concentra anche sulle risposte fisiologiche aggressive e sull’associazione di stimoli che hanno potere di scatenarle o inibirle, mettendo in evidenza soprattutto il rapporto tra istinto di alimentazione e quello aggressivo.

In questa direzione l’aggressività assume valore di istinto come la fame, e l’autore fa osservare che l’istinto ad alimentarsi è più potente ed inibente dell’istinto di aggressività: un animale in uno stato di aggressività tenderà a diminuire la stessa a favore di un comportamento di alimentazione, se la scelta è tra mangiare ed aggredire.
Emerge così un principio di funzionamento istintuale, dove la direzione dell’eccitamento è determinata dalla forza relativa a dei centri che hanno azione reciproca e contraria.
Successivamente, a partire da questi studi si osserverà che, nonostante la frequenza delle dinamiche sopra indicate, sussistono delle eccezioni alla prevalenza dell’istinto all’alimentazione, laddove lo stimolo doloroso e scatenante aggressività sia molto forte (Le Ny e Montpellier, 1968).

Comunque con i suoi studi Pavlov permette di comprendere come può essere stimolata l’aggressività (associazione di stimoli), dando un carattere opportunistico all’istinto aggressivo e collocando lo stesso, in pieno spirito darwiniano, fra gli istinti necessari all’adattamento della specie.
Sulla linea sperimentalista, negli anni trenta il tema aggressività è affrontato anche da Burrhus Federic Skinner nei suoi studi sull’apprendimento, poi definito Apprendimento Operante (Skinner, 1969), per via del ruolo attivo-operativo del soggetto e della sua capacità di creare, nel processo di condizionamento, comportamenti nuovi e non ancorati a riflessi o istinti biologici.
In queste ricerche l’aggressività è un comportamento modulabile con programmi di rinforzi positivi (premi) o negativi (punizioni) (Skinner, 1969), strettamente legato alla reciprocità relazionale e di cui, secondo l’autore, la società ha grosse responsabilità nel promuoverla o nel controllarla ed inibirla.

Skinner vede due tipi di aggressività a partire dagli effetti che essa crea sull’altro: una filogenetica ed una ontogenetica. L’aggressività filogenetica è istintuale e funzionale alla specie dal momento che essa rappresenterebbe, attraverso la lotta con unghie e denti, l’archeitipo della selezione naturale e ad essa viene attribuita una qualità morale buona, dal momento che non porta automaticamente ad una aggressività finalizzata a fare del male. Diversamente, l’aggressività ontogenetica rappresenta l’agito orientato a “fare del male”, che si genera in quanto previsto dalla società, spesso rinforzato dalla stessa ed efficace al punto da strutturarlo nel carattere collettivo e soggettivo.

L’autore approfondisce l’aggressività ontogenetica ed innanzitutto, da buon pragmatista, sostiene che qualsiasi agito aggressivo si voglia considerare, anche il suicidio, ha sempre uno scopo positivo e rinforzante che giustifica l’aggressività. Sottolinea poi come l’aggressività sia l’esito della reciprocità intrinseca alla relazione, dal momento che relazionare in modo aggressivo comporta nell’altro altrettanta aggressività, con il rischio di generare una escalation di aggressività. Paradossalmente però Skinner mette in guardia dal rispondere con affetto e amore all’aggressività, in quanto l’affetto e l’amore vengono vissuti dal soggetto aggressivo come una “vincita” sull’atro e quindi come un rinforzo positivo che sostiene l’aggressività stessa (Skinner, 1971).

Pertanto Skinner, che si pone il problema sociale di come abbassare il livello di aggressività ontogenetica, sostiene che la stessa non può essere trattata unicamente con un sistema sociale punitivo: dal suo punto di vista significherebbe spostare l’attore aggressivo dal soggetto alla istituzione e significherebbe creare le condizioni per aumentare l’aggressività ontogenetica, visto che egli ha ben dimostrato come rinforzi negativi, e una risposta aggressiva aumentino il livello complessivo di aggressività.

In questo senso, l’autore propone una sua soluzione sociale al problema dell’aggressività ontogenetica, che passa dalla moralizzazione della società, che non deve più comunicare l’efficacia della violenza e che deve controllare i comportamenti aggressivi per mezzo dell’impegno delle persone su attività che permettano di occupare il tempo e scaricare l’aggressività: per lui è un buon esempio lo sport (Skinner, 1971).
Sempre negli stessi anni di Skinner e sempre negli USA, John Dollard, insieme ai suoi collaboratori, è un altro autore sperimentale che dà un contributo alla conoscenza dell’aggressività.

Egli, pur sperimentalista, parte dai lavori di Freud e, con un buon impianto di ricerca, arriva a sostenere che l’aggressività è sempre la conseguenza di una frustrazione e che una condizione frustrante conduce sempre ad agiti aggressivi ( Dollard e al., 1939).
Questa teoria di Dollard, però, non giunge del tutto nuova, visto che già in precedenza vari autori di diversa provenienza avevano sottolineato il rapporto tra il sentirsi frustrati e il reagire in modo aggressivo (6). Nonostante il grande interesse che questa teoria suscitò all’epoca, presto fu ridimensionata nel dimostrare l’inesistenza di un rapporto strettamente biunivoco tra frustrazione ed aggressività (7) .
Quello che invece rimane interessante del lavoro di Dollard, aldilà dello scientismo dato a fenomeni mentali già ampiamente individuati e descritti da Freud (Freud, 1905, 1920, 1922), è l’aver isolato e ragionato sulla variabile dell’inibizione degli atti aggressivi. Egli sottolinea che l’aggressività è difficilmente controllabile sul piano on/off, mentre lo è di più su un piano di palesità o non palesità. Come dire che l’aggressività non può essere più di tanto inibita, mentre per timore di punizioni, può non essere visibile, non palese (Dollard, 1939).

Se gli autori considerati fino ad ora hanno preso l’aggressività più da una prospettiva personologica, segue un importante autore, Kurt Lewin, che invece considera la questione da una prospettiva più gruppale.
Lewin legge l’aggressività all’interno di un modello che considera il comportamento come l’esito dell’incontro tra persona ed ambiente psicologico (Lewin, 1939), dove la struttura collettiva e il clima gruppale possono incidere sul comportamento del soggetto più di quanto possano fare le sue istanze mentali interne.

Così per Lewin l’aggressività risulta da molti fattori ambientali e personali, che possono favorire o inibire lo stesso comportamento sulla base dell’andamento delle forze in campo (forze personali e gruppali).
Sovrapponendo gruppo a persona, nel senso che vede in entrambi identiche dinamiche di coesione e strutturazione tra parti che definisce interdipendenti (Lewin, 1939), Lewin contribuisce alla comprensione dell’aggressività espressa dai gruppi e dai rapporto tra i ruoli riconosciuti all’interno degli stessi (8) .
In particolare, risulta interessante la sottolineatura sul rapporto tra sentimento di tensione ed aggressività e sugli effetti dell’aggressività determinati dal gradi di rigidità del gruppo.

Il grado di tensione necessario a generare aggressività è dato dal grado di irritazione proveniente dall’esterno (stimoli percepiti come disequilibranti), dalla pressione relazionale esercitata da colui che ricopre il ruolo di leader e dallo spazio fisico all’interno del quale ci si può muovere, aspetti che sulla base della loro intensità e frequenza generano la forza propulsiva dell’aggressività.
Questo dinamismo a sua volta deve tenere conto del clima gruppale e di quanto questo permetta l’agito aggressivo: un clima di punibilità e una rigidità strutturale del gruppo fanno aumentare l’aggressività.

Così l’autore mette in evidenza la multifattorialità dell’agito aggressivo, ma soprattutto evidenzia il rapporto sociale tra clima ed aggressività, ponendo l’accento sulla flessibilità funzionale e sulla capacità espressiva del gruppo, che possono accentuare o meno l’aggressività nel gruppo stesso.
In fine, anche Lewin sottolinea la responsabilità della società e della cultura in generale, poiché dimostra continuamente l’efficacia del comportamento aggressivo anziché sottolineare come la via aggressiva sia “una via differente” rispetto a clima, riti, norme del gruppo e della società (Lewin, 1939).

Più vicino ai giorni nostri è invece il grande lavoro condotto da Stanley Milgram, sempre negli Stati Uniti, in particolar modo sui temi del conformismo, del condizionamento sociale e dell’obbedienza.
Proprio dallo studio dell’obbedienza derivano i contributi più importanti che l’autore dà al tema aggressività (Milgram, 1963).
Milgram (Milgram, 1974) parte dal domandarsi quanto una persona che per valori e principi è contraria a fare del male, sotto pressione di un comando sia disposta ad essere aggressiva e violenta.
Da questo quesito egli arriva a definire con grande chiarezza quanto un ambiente percepito come autorevole e la possibilità dell’aggressore a deresponsabilizzarsi contribuiscano fortemente a generare agiti violenti ed aggressivi, anche in soggetti naturalmente non portati a compiere tali atti.

In questo modo egli evidenzia che l’aggressività si ottiene da situazioni ambientali e su qualsiasi persona. Questo è possibile se si riesce a generare conflittualità e disequilibri emozionali nei soggetti i quali, non riuscendo a fuggire o a ribellarsi (anche in assenza di punizioni), risolvono tale situazione attraverso il “controantropomorfismo” (Milgram, 1963), cioè deumanizzando i propri agiti, deresponsabilizzandosi, come se l’azione aggressiva sia opera di una “anima” diversa da quella del diretto aggressore.
Questo, secondo Milgram, avviene attraverso uno scarico di responsabilità del diretto aggressore sull’autorità e/o sull’istituzione, che - in sintesi - porta l’autore ad affermare che “anche se le persone non sono motivate ad essere aggressive, possono da un momento all’altro partecipare a comportamenti aggressivi e distruttivi” (Milgram, 1963, 1974).

Un ulteriore autore che si è occupato di agressività sul versante sperimentalista è Albert Bandura. Canadese, statunitense di formazione, si occupa di aggressività dal punto di vista dell’apprendimento, all’interno della sua più ampia teoria dell’Apprendimento Sociale (Bandura, 1973). Egli sostiene che l’aggressività sia un fatto sociale e non biologico, dato dai modelli aggressivi rappresentati dalla società e dalla capacità latente della persona di apprendere dagli stessi modelli (modeling) (Bandura, 1973).

In questo senso Bandura ritiene che il comportamento aggressivo non sia l’effetto di una frustrazione, né di una pulsione, ma l’effetto della possibilità di imparare da modelli aggressivi (modeling), specie se questi sono percepiti come socialmente accettati, efficaci e premiati.
Ma tali possibilità non sono univoche: chi ha un’attivazione emozionale può scegliere di scaricarla fra una gamma di comportamenti possibili.
Pertanto, la scelta del comportamento aggressivo, sia per qualità che per forza, dipende dalla pressione dei messaggi, dalle narrazioni socio-culturali dominanti e dalla capacità della persona di apprendere dai modelli, attraverso il “cemento” del “rinforzo vicario” (9) (Bandura, 1973), ovvero attraverso la possibilità di prefigurare come ritenuti socialmente positivi o negativi gli esiti di una nostra azione, idea che agisce come attivatore o deterrente per i comportamenti.

Con il lavoro di Bandura, vengono quindi sottolineati altri aspetti che intervengono nelle dinamiche aggressive, come la capacità di apprendere per sola esposizione, ma soprattutto come - a prescindere da condizioni mentali soggettive - l’aggressività possa esserci unicamente a partire da come la persona pensa sia il giudizio sociale su una data azione e quindi dal potersi prefigurare in anticipo conseguenze premianti o punenti il proprio agito.

Per queste ragioni, secondo Bandura l’aggressività si caratterizza come un comportamento lesivo e distruttivo che è socialmente definito come aggressivo sulla base di una varietà di fattori, alcuni dei quali risiedono in chi lo valuta piuttosto che in chi lo esegue (Bandura, 1973), relegando l’aggressività come effetto della società, più che del soggetto, e ponendo attenzione al giudizio sociale relativo ai comportamenti aggressivi.

L’aggressività dal punto di vista della psicologia clinica-dinamica

Gli studi psicologici clinico-dinamici sull’aggressività trattano l’argomento attraverso un atteggiamento ermeneutico e facendo uso dell’interpretazione. In questo caso la tradizione è più portata ad indagare le cause interne-psicologiche che spingono all’azione aggressiva e che prescindono dal contesto.

Si noterà poi come in psicologia gli autori che hanno affrontato in modo più o meno approfondito l’aggressività siano tanti. Questo sembra dovuto a due aspetti della tradizione psicologica di ricerca clinico-dinamica sull’aggressività: il primo aspetto è filosofico, dal momento in cui si ritiene l’aggressività innata e naturale (innatismo-naturalismo) e poi perché si ritiene che l’aggressività denoti al male (morale); Il secondo, che giustifica tanto interesse, è interno alla psicologia dinamica.
Dal momento che l’aggressività ha assunto da subito valore di istinto-pulsione (Freud, 1905, 1920, 1929) ed elemento costituente la personalità, ogni autore di questo campo, trattando di personalità o di aggressività, ha dovuto fare i conti con riferimenti meta-psicologici, allargando di conseguenza le varie argomentazioni e letteratura.

Sigmund Freud fu tra i primi ad occuparsi in modo articolato di aggressività e da subito la postula come dimensione pulsionale-motivazionale inconscia, orientata alla distruzione e contrapposta alla spinta generativo-conservatrice della libido.(10)
Questo punto di partenza freudiano pone l’aggressività come un istinto connaturato nell’uomo, presente nella sua personalità e motivante, che obbligherà gli autori che si occuperanno di aggressività a dover sempre fare i conti con la questione motivazione e con un relativo modello della mente.

Freud, in modo confuso ed incompleto, ipotizza che l’aggressività-distruttività sia istintuale-originaria, che sia un comportamento reattivo, ovvero una risposta alla frustrazione, nel senso di un’incapacità dell’io di mediare rispetto ai bisogni intrasistemici della mente.
Ma il padre della psicoanalisi lascia molti spazi di ambiguità su questo argomento, nonostante gli sforzi e nonostante i suggerimenti che ebbe all’epoca dai suoi adepti (Migone, 1995, 2003).

Contemporaneamente a Freud, sul tema si espresse Alfred Adler (Adler, 1907, 1912), attraverso i suoi Studi Sull’inferiorità d’Organo (Adler, 1907), egli sostiene che l’aggressività viene agita per compensare un sentimento di inferiorità sentito dalla persona. Questo presuppone che l’aggressività sia l’effetto di un brutto rapporto con l’ambiente e che l’aggressività sia una strategia estrema dell’individuo, finalizzata alla realizzazione di se stesso.
In questo pensiero adleriano è fondamentale il sentimento di odio e rancore, che abbassa il sentimento sociale e relazionale, permettendo così l’agito aggressivo di rivendicazione rispetto ad un senso di inferiorità sentito.

Sempre nello stesso periodo, un’altro importante contributo arriva da Anna Freud (A. Freud, 1936, 1949a, 1949b, 1972), che individua un meccanismo di difesa dalle esperienze aggressive subite, che prende il nome di l’Identificazione con l’Aggressore (A. Freud, 1936) e presente in modo evidente nel bambino che ha subito aggressività, ma possibile anche nell’adulto ed individuabile nei comportamenti sociali (si pensi alla dinamica del capro espiatorio).

Attraverso l’identificazione con l’aggressore (difesa impregnata di paranoia) il soggetto si difende da un atto aggressivo riproducendolo in forma simbolica (esempio, con il gioco nel caso del bambino), o attraverso l’agito, permettendo così una reiterazione del trauma subito, capace nel tempo di renderlo accettabile alla coscienza.
La figlia di Freud non introduce variazioni rispetto alle teorizzazioni paterne sull’aggressività, ma scopre un comportamento di difesa contro forme di aggressività vissute come esperienze traumatiche.

Di peso diverso e di più ampia portata è invece il contributo dato alla psicologia da Melanie Klein (Klein, 1932, 1957), la quale attribuisce all’aggressività una dimensione istintuale-originaria, già presente alla nascita e coinvolta da subito nella generazione di strutture psichiche come l’io infantile e il super-io.
Per lei l’aggressività ha una dimensione fantasmatica, che si origina dalla matrice del trauma della nascita (Freud, 1920; Rank, 1924), che da subito conduce il bambino ad avere fantasie di distruttività verso sé e verso l’esterno di sé. In questa posizione il bambino si presenta come già dotato di spinte distruttive, ostili ed angoscianti, che lo spingono continuamente a ricercare esperienze relazionali con oggetti che gli permettano di contenere o di non eccedere nelle fantasie aggressive-distruttive.

Diversamente, non potendo sviluppare specie in età neonatale esperienze relazionali capaci di contenere le fantasie aggressive-distruttive, e dovendo proteggersi da queste, il bimbo e - poi l’adulto - saranno portati a proiettare l’aggressività e la distruttività verso l’esterno di sé: sono gli altri ad essere aggressivi e distruttivi, pertanto minaccianti. Tutto questo, secondo la Klein (Klein, 1932, 1948, 1952), può essere la causa prima che spiega perché alcune persone commettono crimini violenti.
Altri autori che hanno arricchito le conoscenze sull’aggressività furono poi Wilhelm Reich (Reich, 1933) e Otto Fenichel (Fenichel, 1945).

Il primo, nel suo lavoro Analisi del Carattere (Reich, 1933), ancora per una volta colloca l’aggressività come una sorta di reazione alla frustrazione, causata molto spesso dalle condizioni sociali che limitano l’individuo stesso. In questa visione, pertanto, non esiste una pulsione di morte, ma solo una libido in eccesso non adeguatamente scaricata, frustrata, e quindi agita per mezzo di azioni aggressive.
Anche per Otto Fenichel, nel suo lavoro Trattato di psicoanalisi delle nevrosi e delle psicosi (Fenichel, 1945), l’aggressività non è primaria (pulsionale), ma è finalizzata alla ricerca di autostima e alla soddisfazione di bisogni e desideri, dal momento che altri comportamenti adottati in passato si sono mostrati inefficaci, o dal momento che la persona, a causa di una specifica storia evolutiva, non possiede altri “strumenti comportamentali” che non siano quelli aggressivi.

Diverso è invece il pensiero di René Arpad Spitz (Spitz, 1958) in merito all’aggressività e al suo ruolo nello sviluppo strutturale dell’individuo.
Per l’autore l’aggressività svolge un ruolo fondamentale nella costruzione dell’oggetto e nella relazione con esso, poiché, partendo dal ritenere l’aggressività una pulsione, insieme alla libido, in una sorta di “intreccio fusionale” (Spitz, 1958), essa sarà essenziale allo sviluppo armonico dell’individuo.

Attraverso questa dinamica evolutiva si genererà, l’oggetto libidico (Spitz, 1953) e la cooperazione tra pulsione aggressiva e quella libidica, permetterà un “rapporto oggettuale” sano.
In tutto questo, secondo Spitz, partecipa il sentimento di diniego, che funge da collante al comportamento aggressivo e che matura nel bambino attraverso la possibilità di dire No e quindi attraverso la possibilità di organizzare la propria aggressività, evitando la scarica disorganizzata.(11)

Per quanto riguarda gli studi più recenti sull’aggressività da parte della Psicoanalisi Ortodossa, troviamo il lavoro di Heinz Hartmann (Hartmann, 1937, 1964) , che parla di pulsione aggressiva alla pari di una libidica, che partecipano allo sviluppo della personalità.
Per l’autore la possibilità di agire o meno in modo aggressivo dipende dalle capacità dell’io di neutralizzare le spinte aggressive attraverso l’altra forza pulsionale della libido, inquadrando così l’aggressività all’interno di una teoria bipulsionale, come da ultima teorizzazione freudiana.

Di tutt’altro parere rispetto ad Hartmann è invece Erich Fromm (Fromm, 1970, 1973 ), autore più orientato verso la Psicologia Culturale di matrice Psicoanalitica, che fa del suo lavoro una critica alla società e che ribadisce il peso dei valori sociali nella generazione di istanze aggressive.
Per arrivare a questi assunti, Fromm parte dal distinguere due tipi di aggressività, completamente diverse. La prima di tipo filogenetico e necessaria alla sopravvivenza della specie e quindi adattiva, come attaccare e fuggire. La seconda di tipo ed origine maligna - “aggressività maligna” (Fromm, 1973), specifica e quasi esclusiva nella specie umana ed assunta dall’autore come patologia del carattere, poiché distruttiva e disadattiva.

Ancora da una prospettiva diversa, distante da Hartmann e dalla Psicoanalisi Ortodossa ed anche da Fromm, è il pensiero e la complessa teorizzazione di Heinz Kohut (Kohut, 1971, 1972, 1977), padre del movimento della Psicologia del Sé, che tratta l’aggressività a partire dal paradigma psicoanalitico del Narcisismo.
Secondo questo autore la distruttività umana, per mezzo dell’aggressività, si sviluppa in seconda istanza ed attraverso fallimenti relazionali precoci, dove il bambino non incontra adeguate soddisfazioni a livello empatico, e non vive adeguati e buoni “rispecchiamenti” empatici con la madre.

Questo impedirà al bambino di integrare adeguatamente fantasie narcisistiche di grandiosità ed onnipotenza, che così libere ed agite nella limitatezza della “realtà”, sono destinate ad essere frustrate e a generare “rabbia narcisistica” (Kohut, 1977), che verrà espressa per mezzo dell’aggressività e finalizzata alla distruttività.
Pertanto in Kohut troviamo l’aggressività come espressione di una ferita narcisistica e questa aggressività sarà tanto più violenta quanto più vi è un investimento sul proprio narciso.

Per Kohut il narcisismo è una parte sovra-ordinata ed organizzativa, detta anche sé, che - diversamente da Freud - non corrisponde sempre ad una condizione patologia, ma che può ammalarsi se l’investimento su questa sovra-struttura è “grandioso” (Kohut, 1972).
Da una prospettiva kleineiana parte invece il pensiero di Franco Fornari (Fornari, 1964, 1970), che parla di aggressività soprattutto parlando di guerra, definendola un “delitto individuale, fantasticato individualmente e consumato collettivamente” (Fornari, 1964).

Le teorie della Klein dalle quali Fornari parte sono quella sulla posizione “schizzo-paranoide e successiva depressiva” e sostiene che l’aggressività e la guerra, come forma organizzata della stessa, si generano dallo sviluppo paranoico (che può esserci anche a livello collettivo), nella quale condizione non si è in grado di riconoscere se stessi come fonte di male, come costituiti da parti negative: elaborazione paranoica del lutto Questo condurrebbe ad “estromettere” sul nemico tali parti distruttive e così attivare ed orientare azioni volte alla eliminazione: la distruzione dell’altro permetterebbe (ma è una illusione) l’eliminazione del male, rifiutato come parte di se stessi.

Fornari definisce, anche in una visone più sociologica, come questa dinamica paranoica generi un sovra- pensiero difensivo che, attraverso razionalizzazioni, costruisce intorno al nemico attributi culturalmente detestabili, che ci fanno sentire in diritto di aggredirlo e nel contempo salvare la nostra idea di persone buone.
Un altro interessante contributo alla conoscenza dell’aggressività arriva da Felicity de Zulueta, che tratta l’argomento dal punto di vista del trauma (de Zulueta,1993 ).

Nel lavoro Dal Dolore alla Violenza (de Zulueta, 1993) egli contrasta la posizione istintivistica sull’aggressività, ribadendo la natura e il valore socio-culutrale della stessa. L’aggressività si sviluppa dalle relazioni interpersonali ed in modo particolare da quelle carenti di affettività.
Zulueta parte dalle concezioni bolwlbiane sull’attaccamento (12) e dalle posizioni di Kohut sullo sviluppo e la realizzazione del sé, per giungere a definire come l’aggressività sia un comportamento di risposta a rotture traumatiche di attaccamento (abbandono; maltrattamento; rifiuto…). Queste toglierebbero la dimensione della sicurezza affettiva a favore di una reazione di paura espressa per mezzo dell’aggressività. Così il soggetto, attraverso il trauma della rottura dell’attaccamento ed attraverso l’impossibilità di costruire un sé buono, integro e positivo, si trasforma da vittima ad aggressore.

Sempre ponendo attenzione alla dimensione soggettiva del sé, un altro autore che si occupa di aggressività Stephen A. Mitchell (Mitchell, 1995,1997), è in disaccordo con la posizione che definisce l’aggressività come una pulsione, ma è convinto comunque della sua profondità, centralità ed universalità.
Mitchell sostiene che l’aggressività è stata utilizzata sia per spiegare la distruttività, sia per spiegare l’assertività, intesa come auto-affermazione, mentre egli sostiene la necessità di separare i due aspetti.

L’assertività è un comportamento di gioia, di impegno e vitale; mentre l’aggressività di cui l’autore si occupa è quella caratterizzata da distruttività, minaccia e vendetta.
L’aggressività è funzionale all’eliminazione di situazioni spiacevoli, pertanto Mitchell (Mitchell, 1993, 1995) la inquadra fra le risposte attivate di fronte a sentimenti spiacevoli e di persecuzione, che possono derivare anche dal mondo interiore, specie se, per una particolare storia evolutiva, il soggetto vive un sé dis-integro.

In questa dinamica assume un ruolo rilevante la rabbia (Mitchell, 1995), quella paralizzante ed imperativa, già presente nel bambino, che - se non integrata con il resto delle parti di sé nell’esperienza interna ed esterna - genera derealizzazione (il”…non so cosa mi è successo!”). Pertanto il sé è visto come un’unità unica ma anche fragile, dove l’aggressività intesa come minaccia primordiale, diviene un elemento organizzatore dello stesso sé, che interviene in modo finalizzato a ristabilire equilibri, la dove l’individuo percepisce minaccia.
Per questa sua articolata posizione, l’autore sostiene che la dimensione patologica si raggiunge quando l’aggressività diventa uno dei pochi organizzatori di un sé che si sente e si avverte sempre minacciato e minaccioso.
Un altro contributo arriva anche dal filone di studi della infant research, grazie al lavoro di Joseph Lichtenberg (Lichtenberg, 1983, 1989).

Egli parla di aggressività partendo dallo studio delle motivazioni e da un sistema motivazionale da lui messo a punto, nel quale individua il un bisogno di reagire avversativamente attraverso l’antagonismo o il ritiro (Lichtenberg, 1989). Questo bisogno aiuterebbe fin dall’infanzia ad utilizzare in modo adattivo la rabbia e a rispondere in modo aggressivo agli stimoli pericolosi.
Per Lichtenberg i sentimenti alla base di questo sistema motivazionale sono la rabbia e la paura, che sfociano poi in antagonismo e ritiro; ma l’aspetto più interessante del suo pensiero è che l’autore postula questo bisogno come al servizio di tutti gli altri bisogni, la dove su altre spinte motivazionali si dovessero presentare situazioni di sofferenza.

Pertanto il bisogno di reagire avversativamente con antagonismo o ritiro serve a scaricare eccessi tensionali o per soddisfare meglio i bisogni di altri sistemi motivazionali, mentre non esisterebbe secondo l’autore una pulsione aggressiva autonoma fine a se stessa come pensata da Freud.

Di grande interesse è anche il lavoro svolto di Donald W. Winnicott, il quale, partendo dagli studi di Melanine Kline arriva a dare un notevole contributo a tutta la Psicologia delle Relazioni Oggettuali, grazie agli approfondimenti svolti sul rapporto persona - “oggetto” (Winnicott, 1941, 1971).
Il suo contributo alla conoscenza dell’aggressività parte proprio dallo studio del rapporto che si ha con gli oggetti che incontriamo nella nostra esperienza e “dell’uso” che ne facciamo.

In una sua affermazione, che racchiude lo spirito che da all’aggressività, sostiene che omicidio e suicidio sono la stessa cosa (Winnicott, 1967) e che i rischi di eccesso di aggressività per una società dipendono direttamente da quanto essa è rimossa negli individui; ovvero dall’impossibilità di riconoscerla e poterla agire con i sentimenti appropriati.
L’aggressività è qui vista come una funzione mentale parziale, che precede la costituzione di una personalità e che serve al neonato per esprimere amore, amore aggressivo (13) (Winnicott, 1941, 1971), possibile anche perché il neonato non riesce a preoccuparsi degli effetti delle sue azioni.

Attraverso il passaggio e la maturazione del sentimento di preoccupazione (cosa genero nell’atro attraverso la mia aggressività) e attraverso l’elaborazione della rabbia (derivante dalle frustrazioni di una normale esperienza), il bambino si difenderà scindendo il suo amore aggressivo in due parti distinte e separate: l’amore e l’odio.
Questa scissione perdurerà ed aiuterà a consolidare gli aspetti amorosi dentro di sé e a riconoscere e a tenere fuori di sé quelli aggressivi e di odio.
Qui l’aggressività è ritenuta una parte della pulsione dell’es (14) , quella della sua componente distruttiva (ma non intenzionale) che, attraverso un sviluppo basato sulla relazione con l’ambiente capace di integrare ed organizzare l’io, verrà trasformata in un’aggressività riconosciuta e gestibile.

Il soggetto proverà rabbia ed odio, ma temendo le conseguenze dei suoi stessi sentimenti sarà portato a gestire tutto questo.
Se le cose invece andassero diversamente, cioè vi fosse una cattiva esperienza con il mondo esterno, l’individuo sviluppa un maggior bisogno di vivere nel Non Me anziché nel Me (15) (Winnicott, 1965), dando adito all’attivazione di comportamenti aggressivi, che per sussistere necessitano di essere provocati. (siccome lui mi vuole fare male allora io l’aggredisco).
Pertanto, in questo impianto teorico abbastanza articolato, l’aggressività è innata e precede la fase integrativa e costituente la personalità ed il carattere partecipando allo sviluppo complessivo della mente.

Fondamentale però diviene anche il contesto ambientale, che qui ha un ruolo ben specifico rispetto all’aggressività, poiché deve dare la possibilità di vivere esperienze sufficientemente frustranti, capaci cioè di far riconoscere la rabbia e l’odio e di integrarle nello stesso tempo con le altre parti di sé. Quindi un ambiente né troppo protettivo, né eccessivamente frustrante.
Altrettanto articolata è poi la teoria sviluppata da Otto Kernberg (Kernberg, 1982, 1992), il quale ha il pregio di aver rivisitato la teoria delle pulsioni tenendo insieme le teorie degli affetti con quella delle relazioni oggettuali.
Egli ha sviluppato a fondo le dinamiche dell’aggressività e propone una concezione dell’aggressività innatista e pulsionale-affettvia nello stesso tempo.

Per l’autore l’aggressività è presente negli affetti, ovvero nella primordiale capacità di distinguere ciò che ci piace (nutrirsi, riscaldarsi…) da ciò che non ci piace (sentire fame, sentire dolore fisico…). Attraverso le prime esperienze con il mondo e grazie ad altre due proprietà innate, fantasticare e memorizzare, sviluppiamo inconsciamente una pulsione di vita e una pulsione di morte. L’aggressività è l’espressione della pulsione di morte (Kernberg, 1992).
Entrambe le pulsioni partecipano allo sviluppo di una rappresentazione di sé e dell’oggetto e successivamente questa sottostruttura si consoliderà in una struttura tripartita (es, io e super-io).

Nel suo lavoro Kernberg non svela un’aggressività o una dinamica aggressiva particolarmente nuova rispetto agli autori che lo hanno preceduto, però ha il merito di riuscire a tenere insieme apparenti sincrasie presenti tra due impianti teorici che tentano di spiegare le stesse cose: la teoria delle pulsioni e la teoria delle relazioni oggettuali. Questo avviene principalmente attraverso la possibilità di collocare la matrice dell’aggressività negli affetti già intrauterini, ovvero nell’innata capacità di poter soffrire (ed anche godere…) e dalla relativa primordiale esperienza che possiamo fare di questa nostra capacità, che solo così potrà strutturarsi in pulsione.

Per concludere, ci sembra opportuno sottolineare che il tema dell’aggressività è stato affrontato anche da molti altri autori che non sono menzionati in questa sintesi. Fra questi ci sembrano degni di nota i lavori di: Arendt, 1970; Atilli et al., 1996; Bergeret, 1994; Berkowitz, 1962, 1969; Bycowsky, 1968; Bonino & Saglione, 1978; Bowlby, 1973; Buss, 1961; Caprara, 1972, 1981, 1985; Costabile, 1996; Di Maria & Di Nuovo, 1984; Eibesfeld, 1970; Fonagy 1991; Gilligan, 1997; Giraud, 1992; Lacan, 1948, Morris, 1967; Parens, 1973, 1979; Salvini, 1988; Scherer et al., 1975; Scott, 1958; Searles, 1956; Singer, 1971; Socarides, 1966; Stepansky, 1977; Storr, 1968, ecc…

Una visione d’insieme

Arrivati a questo punto della nostra descrizione sullo sviluppo del pensiero psicologico sull’aggressività vorremmo segnalare alcuni passaggi.
Si è visto che l’aggressività è una attività che attiva il soma trasformandolo dal punto di vista neurovegetativo ed endocrino, attraverso il rapporto del soma con l’ambiente e per mezzo delle capacità associative elementari, ampiamente presenti nell’apprendimento animale.

Da questo punto di vista, l’aggressività risulta fortemente ancorata al soma e alla dimensione istintuale e la sua espressione è vista come attività necessaria a scaricare l’energia accumulata dal dolore. Questa attività ha un’organizzazione relativa allo stato del momento e quindi può non tenere conto di un sistema istintuale sovra-ordinato, nel quale alcuni istinti primeggiano rispetto ad altri. In questo senso, l’aggressività è vista come un comportamento che può prevalere rispetto ad altri più conservativi, come nutrirsi o riprodursi, e così spiegare in parte come mai è possibile osservare un’aggressività “contro natura” (come ad esempio l’uccisone della prole o il suicidio).

Un’altro contributo arriva dagli studi sul rinforzo, nel quale diviene evidente il rapporto tra comportamento aggressivo e risultato, in una logica pragmatica, dal momento in cui si apprende che un comportamento aggressivo “paga” (ovvero genera un ritorno positivo), attivando un accomodamento in noi, il cui esito è uno script comportamentale potenzialmente agibile nel contesto. Così l’aggressività non è solo scarica neuro-fisiologica stimolata dall’ambiente, ma anche comportamento socio-indotto o inibito sulla base dei modelli sociali proposti.

In questo modo entra in scena un’aggressività bipartita, la cui visione complessiva rimane comunque di tipo darwiniano: da un lato un’aggressività naturale pre-programmata negli istinti ed attivata ai soli fini della sopravvivenza; dall’altro un’aggressività sociale pre-programmata dall’esperienza ed attivata ai soli fini economici - nel senso di facilitare il raggiungimento degli scopi basata sull’opportunismo e sulla gratificazione.

Rimanendo sul paradigma dell’aggressività come scarica di una eccitazione corporea, aggiungono informazioni quegli studi che la vedono come reazione ad una condizione frustrante.
Tale filone di ricerca sostiene che l’aggressività è un mezzo di sfogo, che parte da un disequilibrio interno, matura da una mente desiderante ed implicitamente bisognosa, e scarica aggressività quando queste sue istanze non sono ben coordinate e soddisfatte. Qui sono importanti due punti: da un lato questo sfogo aggressivo può avvenire “a distanza” rispetto al momento o al soggetto causa di frustrazione: ciò significa che si può essere aggressivi anche con chi o con cose che con la nostra frustrazione fonte di aggressività non c’entrano nulla.

Dall’altro lato, questo filone di studi sottolinea poi come sia centrale la necessità di scaricare, al punto che questa può attivarsi anche in modo implicito, non palesemente evidente, aprendo al tema di quanto e cosa c’è di aggressivo nell’agito: un esempio è il pacifismo come comportamento aggressivo.
Sempre sul crinale soggetto-contesto, aggiunge contributi anche lo studio dell’aggressività all’interno della dimensione gruppale.

Partendo sempre dal considerare l’aggressività come comportamento di scarica della tensione, le fonti di accumulo di questa sono individuate nell’esercizio dei ruoli gruppali - quanto un ruolo prevede situazioni frustranti o prescrive comportamenti aggressivi – e sono individuate nel clima del gruppo e nella sua capacità espressiva; ovvero, l’aggressività dipenderebbe da una serie di norme e regole più o meno implicite, che generano sia la tendenza aggressiva, ma anche le modalità per poterla esprimerla sia dentro al gruppo che fuori.

Su questa linea socio-relazionale dell’aggressività si inseriscono anche i risultati ottenuti dagli studi sull’obbedienza, nei quali si evidenzia la possibilità-capacità dell’individuo di assoggettarsi al contesto e perdere l’identità e la forza necessari ad inibire e respingere richieste di comportamenti aggressivi. Emerge in questo caso un’aggressività implicitamente pensata come naturale nell’individuo e fortemente modulata dal contesto sociale, che può attivarla o disattivarla attraverso meccanismi socio-culurali che facilitano la deresponsabilizzazione dell’individuo.
La società e il contesto assumono per questo forte valenza di controllo sul comportamento aggressivo dell’individuo, che da questa indagine emerge come debole sul controllo delle proprie azioni, laddove gli si offre un contesto che lo solleva e lo esonera dai processi di autocolpevolizzazione.

Sempre alla società viene poi attribuita la responsabilità di comunicare “stringhe di comportamento”, che suggeriscono l’efficacia sociale e personale di comportamenti aggressivi che, attraverso la capacità di apprendimento involontario e attraverso la capacità di apprendimento per imitazione, favoriscono l’attivazione di tali comportamenti fin dall’infanzia.
In questa visione l’individuo non agisce aggressivamente per frustrazione o per scaricare un surplus energetico, ma agisce aggressivamente per aderenza ad una logica pragmatica che vede l’aggressività premiata ed efficace su più livelli socio-culurali e personali.

Parallelamente a queste posizioni, l’aggressività viene anche pensata come istanza energetico-istintuale dell’individuo e coinvolta nei processi generativo-evolutivi della mente.
In questo modo l’individuo è depositario congenito e naturale dell’aggressività e dei suoi risvolti come la violenza e la distruttività, e questo a prescindere dal contesto sociale, che assume più un ruolo di luogo nel quale l’aggressività può essere trasformata e/o annullata, più che generata.
In questa logica l’aggressività rappresenta l’emblema per rispondere su un piano empirico all’arcaica domanda sulla presenza nell’uomo del bene e del male, della gioia e della paura (l’eros e il thanatos…) e sulle conseguenti possibilità della mente di ammalarsi dietro l’influenza di un’aggressività “mal evoluta”.

Qui la logica si ribalta, da un’aggressività elicitata e funzione di una cultura e di una società, ad un’aggressività ontogenetica e insieme filogenetica, che partecipa allo sviluppo della mente e che può assumere configurazioni mentali molto differenti, lungo un continuum tra salute e malattia.
In questa ultima posizione di pensiero, quando si parla di aggressività, va dunque tenuto conto che essa è un elemento organizzatore e costituente la personalità; che è precoce; che è riparatoria-difensiva rispetto a mancanze strutturali di personalità o economiche; che ha un elaborato dinamismo nel quale compaiono affetti e sentimenti (la rabbia, l’odio, l’invidia, l’irritazione…).

Tenendo conto di questi assunti di base, in pratica la tradizione clinico-dinamica contribuisce alla conoscenza dell’aggressività nell’ambito della sua centralità e del suo movimento nello sviluppo del bambino e nell’ambito dell’uso che ne fa l’adulto per difendersi, per sfogare, per compensare una identità mal riuscita, per equilibrare una disorganizzazione affettiva-cognitiva; come agito possibile di una mente che non è capace di pensare come effetto di un conflitto dinamico intrapsichico (tra es, io e super-io), come istanza dominante del carattere, organizzatrice di pensieri ed azioni; o come motivazione sovrastrutturata ad altre che sono subordinate all’aggressività.

I macro contributi della ricerca psicologica dicono che l’aggressività è un tratto esistenziale ineliminabile, naturale, un elemento della complessa dinamica trasformativa della vita, che è presente da subito, appena la stessa vita si appalesa.
Si scopre che già il neonato “fa i conti” con affetti aggressivi (ad esempio: i morsi della fame…) e che l’adulto utilizza l’aggressività almeno per tre grandi ragioni: come istinto naturale per sopravvivere biologicamente ad una minaccia (attacco e/o fuga dal pericolo); come motivazione autorealizzante; come espressione di un disagio o di una malattia mentale (come sintomo), il tutto in una oscillazione ontogenetica tra comportamento adattivo e comportamento opportunistico.

In questa cornice è incluso anche l’ambiente inteso come società e cultura, nei suoi differenti livelli, ognuno dei quali entra in gioco con le dinamiche aggressive soggettive. Per cui la società e la cultura, nell’ambito del livello della relazione interpersonale tra adulto e bambino nel regolare una aggressività da accomodare; il livello del gruppo come entità che può regolare l’aggressività propria e dei suoi membri; il livello comunitario, che regola con norme e leggi l’uso dell’aggressività; fino ad un livello macro-sociale e collettivo, che regola un’aggressività massificata per mezzo della guerra.

Conclusioni

Per concludere, riteniamo utile indicare in quali ambiti oggi si stanno muovendo la ricerca e l’interesse della psicologia per quanto riguarda l’aggressività. Coma già detto, l’aggressività attrae l’attenzione di molti autori e di molte discipline e l’argomentazione su questo tema si sviluppa poderosamente e continuamente, come avviene per i temi del bene e del male, della pace e della guerra, della conservazione e del cambiamento…

In psicologia, attualmente, l’aggressività è studiata all’interno di vari filoni, che in vario modo la contestualizzano o la attraversano. In ogni caso sono ad oggi (ancora) rilevanti gli studi psicologici su aggressività e mass media-comunicazione (essendo aumentati i media) ed in particolare riferiti alle esperienze web.
Un altro filone di studi sull’aggressività, più sociologico ed anch’esso con una certa tradizione, è quello dei gruppi, a partire dall’aggressività in famiglia, dell’aggressività messa in atto nelle relazioni intergruppo e intragruppo, e dall’aggressività messa in atto nei contesti di folla…

Un terzo filone è poi quello dell’età evolutiva (anch’essa con la sua tradizione), dove l’aggressività è studiata nel rapporto bambino-genitore-adulto, nel rapporto tra bambino e suoi affetti aggressivi e come comportamento manifesto sia nel rapporto con l’adulto, sia - fatto abbastanza nuovo - nei confronti dei propri coetanei, specie tra pre-adolescenti (16) .
Un altro filone ancora riguarda lo studio psicologico dell’aggressività intra-ruolo e inter-ruoli e fra generi, In cui spiccano i lavori che studiano il rapporto tra aggressività e ruoli di comando o subordinati, l’aggressività subita dalle femmine da parte dei maschi, l’aggressività fra ruoli famigliari, l’aggressività agita contro esseri animati (ad esempio verso gli animali domestici…).

Vi è poi un altro filone della psicologia che si occupa di aggressività ed è quello clinico-psicopatologico. In questo si tende a collocare l’aggressività nella patologia mentale, si è molto interessati ad interpretare i casi di aggressività, molti studi si collocano a confine tra psicologia e criminologia e ci si interessa di configurazioni diagnostiche, nelle quali l’aggressività e la violenza prevale, trattandole come paradigmi per sviluppare meta-psicologia (cioè modelli di funzionamento mentale) (17) .
Un ulteriore filone di studi di psicologia dell’aggressività è quello che la colloca nella dimensione sessuale e in questo ambito spiccano gli studi sulle perversioni, sul costume libertino, sul consumo di sesso violento…

Ancora, vi è tutto l’ambito della psicologia della politica, che studia gli effetti che la politica può ottenere dall’aggressività; e qui hanno prevalenza gli studi dell’aggressività applicata in ambito bellico, gli studi degli effetti aggressivi o violenti di una legge (il senso di costrizione di una regole; le pene possibile a fronte di reati; gli ambienti di detenzione…), fino agli studi sull’efficacia persuasiva dell’aggressività.

Per finire, va detto che questa suddivisione dei macro filoni della psicologia che si occupano di aggressività qui presentata è arbitraria e non esaustiva (ma crediamo che questo sia anche una conseguenza della natura dell’oggetto aggressività) e che spesso lungo questi studi è possibile riscontrare che aggressività, violenza e distruttività vengano confusi o usati come sinonimi, il che a volte non aiuta la comprensione.

 

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  15. Miller A. (1980). Am Anfang war Erziebung. Frankfurt: Suhrkamp (Trad. it.: La persecuzione del bambino. Le radici della violenza. Torino: Bollati Boringhieri, 1987).
  16. Mitchell S.A. (1993). Aggression and the endangered Self. Psychoanal. Quarterly, 62: 351-381.
  17. Sears R.R. (1941). Non-aggressive reaction to frustration. Psychological Review 48.
  18. Storr A. (1968). Human Aggression. New York: Scribner. (Trad. it.: L'aggressività nell'uomo. Bari: De Donato).
  19. Winnicott D.W. (1949) Hate in the countertransference. International Journal of Psychoanalysis, 30: 69-74. (Trad. it.: L'odio nel controtransfert. In: Dalla pediatria alla psicoanalisi. Scritti scelti. Firenze: Martinelli, 1975).
  20. Zillmann D. (1979). Hostility and Aggression. Lawrence erlbaum Associate Inc.: Hillsdale NJ

 

Dottor Andrea L.Spatuzzi - Psicologo

 

 

Note

1 Estrapolato da: Il Nuovo Zingarelli, Vocabolario della Lingua Italiana, di Nicola Zingarelli, undicesima edizione, Bologna. (torna al testo)

2 sull’aggressività animale si vedano anche i lavori di Lorenz, 1963, 1966, 1950; Dart, 1953; Eibesfeld, 1970, 1973, 1979; Mainardi, 1977; Tinemberg, 1953; Hidne, 1970: Wilson, 1975; De Waal, 2000 (torna al testo)

3 Estrapolato da: Il Nuovo Zingarelli, Vocabolario della Lingua Italiana, di Nicola Zingarelli, undicesima edizione, Bologna.
(torna al testo)

4 In merito si vedano i lavori di Skinner, 1969, 1971e di Dollard et al., 1939.(torna al testo)

5 Estrapolato da Il Nuovo Zingarelli, Vocabolario della Lingua Italiana, di Nicola Zingarelli, undicesima edizione, Bologna.
(torna al testo)

6 In merito vedi autori come James, nell’opera “Principi di psicologia”, ed it. del 1902 o Marx, specie in “Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica”, ed. it. del 1976 ,o nei lavori di Freud del 1920 e 1922 ed ancora nei lavori di Adler del 1912
(torna al testo)

7 In merito, vedere i lavori di Miller, 1941 e Sears, 1941(torna al testo)

8 Vedere studi su stili di leader di Lewin, Lippitt e White, 1939.(torna al testo)

9 In merito al Rinforzo Vicariante si vedano anche i contributi di R.C. Bolles, Theory of motivation, 1975; C. L. Hull, I principi del comportamento, ed it. 1978; E.C. Tholman Il comportamento intenzionale, ed it. 1983 (torna al testo)

10 In merito ai lavori di Freud che trattano in modo significativo i temi dell’aggressività vedere: L’interpretazione dei sogni, 1900; Tre saggi sulla teoria sessuale, 1905; Analisi di una fobia di un bambino di cinque anni, 1908; Osservazioni Psicoanalitiche su un caso di paranoia, 1910; Totem e Tabù, 1913; Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, 1915; Metapsicologia: lutto e melanconia, 1917; Al di la del principio del piacere, 1920; Psicologia delle masse e analisi dell’io, 1921; L’io e l’es, 1922; La negazione, 1926; Il disagio della civiltà, 1929; Introduzione alla psicoanalisi, 1932; L’io e i meccanismi di difesa 1936; Motto di spirito e le sue relazioni con l’inconscio, 1940 (torna al testo)

11 In merito si veda la stessa posizione espressa da Freud in La Negazione, 1926 (torna al testo)

12 In merito alla teoria dell’attaccamento si possono vedere i lavori di J. Bolwby, quali Attaccamento e perdita. Vol. 1: L'attaccamento alla madre. Torino: Boringhieri, 1976 e Attaccamento e perdita. Vol. 2: La separazione dalla madre. Torino: Boringhieri, 1978 (torna al testo)

13 Ad esempio, l’erotismo orale che ha in se elementi aggressivi.(torna al testo)

14 E non una pulsione dell’es (torna al testo)

15 Cioè essere più concentrato su aspetti dell’esperienza che vede solo come esterni da sé (torna al testo)

16 Un esempio sono i casi di uccisione fra coetanei e in ambiente scolastico accaduti recentemente negli USA.(torna al testo)

17 In psicoanalisi il disturbo isterico spesso è stato preso come paradigma di riferimento per spiegare la mente. Oggi sembra che tale ruolo paradigmatico sia stato assunto dal disturbo detto borderline.(torna al testo)

 

 

Tags: psicologia aggressività teorie comportamento aggressivo

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