Psicologia della liberazione dalla dipendenza: oltre il sipario il palcoscenico, sul palcoscenico gli attori...
Dopo poco più di dieci anni di clinica della tossicodipendenza, la psicologia può accennare a formulare riflessioni ed analisi sul proprio operato nel settore pubblico e privato.
All’inizio la professionalità psicologica ha ripercorso lo schematismo nosografico alla scoperta della nuova patologia: la dipendenza da sostanze.
Il modello clinico-nosografico di Kraepelin rivisto e corretto nel DSM3 e 4 ha spinto tutti alla ricerca dei sintomi correlati all’uso di particolari sostanze e all’analisi interpretativa sull’abuso e sulle modalità di abuso.
In questo campo si sono poi proposte le teorie e le tecniche psicoterapeutiche più svariate alla ricerca della guarigione dalla malattia. Il problema principale è sembrato quindi quello di definire il palcoscenico nosografico per potersi muovere bene nel rispetto della scientificità del modello clinico e per dimostrare poi la validità di teorie e tecniche più svariate con pretese terapeutiche psicoanalitiche, relazionali, comportamentali e quant’altro già si era sperimentato nel campo psichiatrico da parte della psicologia.
Si può ipotizzare una distinzione tra la posizione di un passato remoto, secondo cui la tossicodipendenza era un disturbo antisociale, quella di un passato recente di inquadramento nosografico di disturbo di personalità e la posizione attuale, secondo la quale si può parlare di nefasto utilizzo di sostanze a scopo autoterapeutico. L’uso di sostanze e la dipendenza da esse possono dare una risposta "valida" al panico derivante dalla percezione di cambiamenti, dall’angoscia della solitudine, dal terrore di non saper contenere le pulsioni provenienti da sfere inconsce. Il disagio e la sofferenza si sviluppano se si è costretti a rinunciare progressivamente ai propri potenziali di crescita per ricercare una sicurezza dal mondo esterno, che presenta la possibilità dell’uso e dell’abuso di sostanze a scopo "terapeutico". La ricerca di sicurezza per alleviare l’ansia diventa preponderante, portando l’individuo a rinunciare allo sviluppo del suo sé reale, ad essere compiacenti o aggressivi o distaccati. La costruzione di questo falso sé porta a modalità di rapporto con gli altri che determinano insoddisfazione e autodistruttività, aumentando l’ansia e la frustrazione, portando inevitabilmente ad una sofferenza insopportabile, dalla quale diventa utile fuggire con l’uso di sostanze. Il breve tempo d’effetto porta poi irrimediabilmente al ritorno dell’angoscia con lo sviluppo della dipendenza.
La dipendenza nelle persone definite "normali" è quella nei confronti del sé idealizzato, che permette la liberazione da sensazioni penose e insopportabili, impiegando le energie psichiche per la soddisfazione della brama di gloria, dell'esigenza di perfezione, dell'ambizione sfrenata e dell'esigenza di vendetta. Più ha bisogno di sentirsi sicuro, più le sue emozioni ed i suoi sentimenti vengono soffocati e svaniscono nell'indispensabile conquista del senso di sicurezza che il falso sé può dare. L'idealizzazione di se stesso riesce a fornire la sensazione di importanza e di supremazia mentale, diventando più reale del vero sé.
La dipendenza dall'uso di sostanze stupefacenti tenta l'individuo debole, insicuro e profondamente angosciato con l'offerta di sensazioni di benessere e di potere illimitato, funzionando simbolicamente come la tentazione demoniaca, che può agire su chiunque perché risponde al desiderio di aspirazione all'infinito e di poter risolvere nell'immediato qualsiasi difficoltà.
Questa facile via autoterapeutica conduce però inevitabilmente ad un inferno, caratterizzato dal disprezzo di se stessi e da ulteriori terrificanti tormenti psichici e fisici. Avviandosi su questa strada, la persona perde la possibilità di coltivare il vero sé. Le potenzialità restano in latenza ed il solo intravederle è fonte di sofferenza.
Nell'ambito di questa tragedia si sviluppano le pretese del tossicodipendente, caratterizzate, come nello sviluppo nevrotico del falso sé, dall'egocentricità quale dominio delle esigenze e costrizione all'adesione alle proprie peculiari soluzioni. Di conseguenza è da considerare l'inutilità terapeutica della definizione di infantilismo riportata alla persona tossicodipendente e tanto più la futilità dell'invito a superare tali pretese. Se ha bisogno deve avere immediatamente la risposta e tutti devono capire e trovare il tempo da dedicare al suo problema; egli pretende di ottenere senza compiere i necessari sforzi e sacrifici. Questo spiega la scarsa cooperazione dei pazienti tossicodipendenti; anche quando sembrano rendersi conto delle loro pretese, continuano a chiedere particolari privilegi, sostenendo aggressivamente le loro richieste.
Il tossicodipendente trova quindi il soddisfacimento, temporaneo, ma anche ripetibile, delle proprie esigenze autoterapeutiche e risulta quindi difficile credere che possa rinunciare alle droghe con la rapidità e facilità pretese dagli operatori, rappresentanti della società dell'efficienza. Per di più neanche gli psicologi sono immuni dal concordare con la comune opinione sullo scopo voluttuario dell'uso di sostanze e non costituisce novità la difficoltà a riconoscere in chi soffre di tale problema la dignità di persona da curare.
L'atteggiamento del terapeuta verso il tossicodipendente condiziona profondamente il risultato. Talvolta l'atteggiamento negativo del terapeuta nasce dalla percezione della tossicodipendenza come "malattia autoprocurata"; inoltre l'impulsività, le tendenze manipolative, l'antisocialità determinano nello psicologo reazioni negative e di rigetto.
Se in qualsiasi processo psicoterapeutico talvolta l'uso di tecniche non solo è insufficiente a produrre un cambiamento, ma determina anche insuccessi, nello specifico del trattamento del tossicodipendente è fondamentale mettere in campo il proprio sé nella costruzione di un rapporto con la persona che, oltre la rappresentazione della tossicodipendenza, ha le caratteristiche descritte di perdita di consapevolezza delle potenzialità di sviluppo del vero sé.
Non è facile comunicare con il paziente ed è indispensabile essere preparati a delusioni ed amarezze per le sconfitte piuttosto che a pretendere la garanzia delle gratificazioni per i successi. Lo psicoterapeuta impreparato ai risultati negativi vive anche le ricadute durante il processo riabilitativo come ferite narcisistiche della propria onnipotenza, arrivando all'inattività tipica del conflitto fra l'immaginario onnipotente ed il vissuto dell'impotenza. La sperimentazione della propria capacità deve prevedere innanzi tutto l'accettazione della dimensione antropologica del rapporto con altri diversi da sé.
L'importanza e l'influenza del rapporto supera quelle della tecnica psicoterapeutica, dalla quale si rischia di pretendere nevroticamente il risultato.
La relazione empatica ha sicuramente più probabilità di successo.
Il rigetto emotivo della devianza e i pregiudizi non permettono la comunicazione con i tossicodipendenti. Pur non essendo necessario condividere la scelta di dipendenza da sostanze è possibile la sintonia sulla lunghezza d'onda di tale deviazione dal percorso di realizzazione del vero sé per percorrere il cammino verso il riconoscimento delle potenzialità sempre presenti ed in attesa di essere attivate.
Il lavoro clinico impone la convinzione che i sentimenti e le emozioni dello psicoterapeuta diventino lo strumento di lavoro in una terapia intesa come impresa di collaborazione.
Le fondamenta di un auspicabile e non preteso risultato sono la volontà di comprendere, l'interesse continuo, la fiducia nelle potenzialità della persona ed il considerare con interesse la sofferenza.
Chiunque può giungere alla maturazione, se però si assume la responsabilità di se stesso e si pone l'obiettivo della realizzazione del vero sé.
Dott. Sirolli Alessandro, Psicologo Dirigente - ASL N° 1 - Servizio Tossicodipendenze - Sulmona
Incaricato di psicoterapia presso la Scuola di Specializzazione in Psichiatria Università dell'Aquila
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Tags: dipendenza tossicodipendenza