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Uomini e Macachi

Il Professor Roberto Mucelli ci spiega perché è importante osare oltre la sperimentazione animale (a proposito del caso “Lightup”)

uomini e macachiIn queste ultime settimane, tra le notizie di cronaca che rimbalzano qua e là attraverso i Social e nei quotidiani, c’è un fatto che a prima vista o agli occhi di coloro che non provano una particolare empatia verso gli animali può sembrare meno importante di altri, e che invece è per tutti, antispecisti, animalisti e non, assolutamente degno di nota.

Non solo; occorre prendere coscienza dell’inganno sotteso alla questione, perché, analizzando i presupposti del caso “Lightup” scopriamo che l’illusione e la cecità riguardano la nostra umana coscienza. Sì, perché ci ritroviamo davvero nel ruolo di perenni illusi, con l’investimento di denaro pubblico in un modello animale che è già da tempo inadeguato e obsoleto, eppure bandiera – per alcuni – di una ‘vera scienza’ che tanto vera non è.

Anziché investire in un ricerca che porti oltre, che osi oltre la sperimentazione su topi, cani, gatti e scimmie, prendendo al volo le novità della tecnologia, ci si ostina sul sentiero noto, una via lastricata di denaro e tempo da perdere, di risultati dubbi quando non completamente falsati e completamente priva di etica. Di esempi alternativi già attivati e avviati con successo ce ne sono già tantissimi. Per approfondire l’argomento, tra biotecnologie human-based, come gli “Organi su Chip”, e altre novità, vi consiglio una visita alla Pagina Facebook dei medici di OSA e al loro sito: www.oltrelasperimentazioneanimale.eu

Non è la prima volta (e non sarà l’ultima) che in Contemporanea/Mente faccio spazio a tematiche in area ‘intelligenza ecologica’, ma la questione ‘macachi di Torino (e Parma)’ va a braccetto non soltanto con l’invito a impegnarsi per salvaguardare l’ambiente e la vita delle altre specie, uscendo dal dominio umano monoteista. Non soltanto. La faccenda in realtà ben si sposa con la necessità scientifica di saperne di più. Voglio conoscere il punto di vista di chi da anni combatte per eliminare (un giorno, si spera) la sperimentazione animale puntando gli indici non solo sull’etica e sul rispetto di tutte le creature viventi, ma anche sulla non validità del’equazione ‘se funziona sull’animale, allora funziona anche sull’animale uomo’. Coniugare il discorso etico con la scientificità dell’operare è ormai diventata una linea guida per il futuro.

Le associazioni animaliste nazionali combattono oggi fianco a fianco con biologi, psicoterapeuti, medici che afferiscono a diversi gruppi, tra i quali proprio OSA: tutti i partecipanti alla battaglia per liberare i macachi di “Lightup” sono da tempo impegnati a raccogliere dati e ad avviare progetti di ricerca che osino, appunto, andare oltre il modello animale.

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Ho chiesto al collega Roberto Mucelli1, psicoterapeuta e docente universitario, che cosa ne pensa dell’esperimento “Lightup”, già finanziato e portato in palmo di mano dalle Facoltà di Psicologia di Torino e di Parma, e del quale ormai ovunque tutti possiamo leggere notizie,  e dell’utilizzo di sei macachi che verranno resi ciechi. E verranno resi ciechi davvero, non solo ‘parzialmente’. Il termine ‘parzialmente’ sembra dare risalto a coloro che reputano ‘fake news’  le parole di chi va contro la sperimentazione animale.

Sembra che per le istituzioni responsabili del progetto, nonché per l’Ordine degli Psicologi del Piemonte – i consiglieri del quale si sono espressi con un comunicato che ricalca senza approfondimenti la ben nota posizione delle due università coinvolte – l’utilizzo del termine ‘parzialmente’ possa fare una qualche differenza. Sinceramente, per dirla con un avverbio, non cambia proprio nulla. Il sistema oculare e le vie ottiche dei macachi non verranno danneggiati, ma i primati coinvolti (loro malgrado) nell’esperimento non vedranno più nulla perché subiranno l’ablazione della corteccia visiva.

Se non è cecità questa… (fermo restando che le scimmie verranno uccise, chiamiamola pure eutanasia, alla fine dei cinque anni di tortura quotidiana).

I medici, i professori universitari e i ricercatori anti-modello animale chiedono di limitare la ricerca ai soli esseri umani (una parte del progetto, infatti, prevede un campione di pazienti umani). Comunicati, botta e risposta, un fare chiarezza che diventa notizia, manifestazioni per la liberazione delle sei scimmiette – ancora ignare e, fatemelo dire, innocenti testimoni e vittime di quel che alcuni psicologi han deciso di fare: io voglio capire meglio perché l’utilizzo dei macachi in questo esperimento è, oltre che molto crudele… completamente INUTILE.

Roberto Mucelli ci spiega perché:

Il progetto “Lightup” delle università di Torino e Parma è indirizzato alla ricerca nel campo della condizione patologica denominata “blindsight”. Si tratta di un disturbo neurologico e neuropsicologico raro. I pazienti che ne sono affetti non presentano un disturbo a livello ottico, o delle vie ottiche, ma lesioni, il più delle volte di carattere ischemico, della corteccia cerebrale visiva primaria, detta V1. Gli occhi e le prime vie neurali recepiscono lo stimolo visivo, ma la lesione della corteccia V1 impedisce che detto stimolo venga portato alla consapevolezza. Abbiamo quindi due parti della visione: la prima, a carico del sistema oculare e delle vie ottiche neurali, acquisisce quelli che noi potremo impropriamente chiamare “dati grezzi”, connessi principalmente alla possibilità di riconoscere il movimento; la seconda parte della visione è invece un vero e proprio atto cognitivo, che organizza a livello di coscienza i “dati grezzi” e li elabora, mettendo in connessione la corteccia visiva con le altre aree corticali deputate alla cognizione, attribuendo agli stimoli, provenienti dal sistema oculare attraverso le vie ottiche, un significato che ci rende consapevoli di quanto vediamo e del suo senso. Questa forma di visione corticale ci permette così di leggere, di acquisire i dati nella memoria visiva, di riconoscere oggetti e ambienti. I pazienti affetti da blindsight, alla lettera “visione cieca”, mantengono la capacità di localizzare il movimento di uno stimolo all'interno del campo visivo, senza però averne coscienza. I pazienti affetti da questa rara patologia sono in grado di seguire con la mano un oggetto in movimento sullo schermo mentre continuano a sostenere con lo sperimentatore di non aver visto nulla.
Il primo e più evidente problema nell'uso dei macachi in questa ricerca è che a loro manca la capacità di riferire direttamente allo sperimentatore, attraverso il linguaggio verbale, di che cosa siano consapevoli o meno. Il tema della coscienza negli umani angustia da anni filosofi, neuroscienziati, scienziati cognitivi e psicoterapeuti, senza che si sia giunti ad una definizione univoca del tema. Non vedo quindi cosa se ne possa sapere della coscienza dei macachi, se non che, in maniera del tutto generica possano accedere ad un'esperienza simile a quella che noi umani chiamiamo coscienza. I macachi non potranno mai descrivere verbalmente e simbolicamente la loro coscienza come può fare un umano, anche perché la forma e i contenuti della loro coscienza sarebbero inevitabilmente diversi dai nostri. “Se un leone parlasse non potremmo capirlo”, sostenne argutamente il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein.

Il cervello dei macachi, oltretutto, presenta solo analogie con quello umano; le differenze neuro anatomiche e funzionali riportate in letteratura sono considerevoli. Pensare che il cervello di un macaco funzioni in maniera perfettamente sovrapponibile a quello di un umano solo perché alla risonanza magnetica funzionale aree cerebrali simili si attivano nel macaco e nell'umano se sottoposti a stimoli simili, significa ridurre la complessità cerebrale umana a un dato meramente anatomico, ed anche ne caso che si scelga questo modello di pensiero, il funzionamento delle aree associative della corteccia che potremmo mettere in correlazione con il fenomeno che chiamiamo coscienza, negli umani presenta diversi livelli di complessità e un maggiore numero di connessioni neuronali.

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Scopo dichiarato della ricerca “Lightup” è capire se potrebbe essere efficace la Stimolazione Magnetica Transcranica per il recupero della consapevolezza visiva nei pazienti affetti da “blindsight”. Sperimentare la TMS su macachi che presentano un maggiore spessore delle ossa della calotta cranica e di conseguenza un diversa reazione alle onde elettromagnetiche non può fornire dati utili per la sperimentazione umana. Tra l'altro, la Simolazione Magnetica Transcranica viene attualmente definita priva di effetti collaterali, quindi non si capisce perché non possa essere sperimentata direttamente sui pazienti affetti da “blindsight”.

Inoltre, il modello di pensiero sottinteso a questa ricerca, ovvero che la coscienza sia un qualcosa che scaturisce unicamente da strutture anatomiche cerebrali, è messo in dubbio da modelli altrettanto autorevoli, un esponente dei quali è il noto neuroscienziato Antonio Damasio, i quali sostengono non tanto e non solo l'ovvia affermazione che non sia possibile pensare senza un corpo, ma che i nostri corpi, nel loro insieme, trovandosi nello spazio in relazione a ciò che sta fuori, letteralmente “strutturano i nostri pensieri”. La prima forma di autocoscienza è l'essere in una situazione corporea, come sostiene lo scienziato cognitivo Shaun Gallagher. Ora, il corpo di un umano è ben diverso da quello di un macaco, come sono diversi gli input percettivi, motori e propriocettivi che strutturano i pensieri, quindi studiare un difetto della coscienza e della ‘cognitività’ degli umani a partire dai macachi non può che sollevare forti perplessità, sia epistemologiche che metodologiche

Ultima considerazione riguarda l'uso di tecniche non invasive come la Risonanza Magnetica Funzionale e i metodi computazionali, in grado, attraverso la bioinformatica, di offrirci simulazioni attendibili della condizione di “blindsight” negli umani senza ricorre a macachi ai quali asportare la corteccia visiva primaria e così, di fatto, accecandoli, nonché renderli oggetti di impianti cerebrali che li faranno soffrire per 5 anni della loro vita per poi, infine, sopprimerli.

 

Note

[1] Roberto Mucelli, professore a contratto di Bioetica e di Modelli Clinici delle Dipendenze presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica della Facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza Università di Roma. Socio ordinario della Associazione Scientifica “Oltre la Sperimentazione Animale”. Lavora a Roma come Psicologo Clinico e Psicoterapeuta Psicoanalitico. https://robertomucelli.blogspot.com Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

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