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Pensieri da un cornicione

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pensieri da un cornicioneMario è fermo, immobile, in piedi sulla sottile linea di demarcazione tra la vita e la morte, una sottile linea di demarcazione di cemento decorato stile rinascimentale.

E’ lì e pensa.

Non ha dubbi, non è indeciso, non cerca compromessi per continuare a vivere, ormai li reputa tutti inutili ed in ogni caso in ritardo,

Mario sta solo e semplicemente pensando. Il cervello mette in atto per l’ultima volta i suoi pensieri.

“Le ultime fantasie, gli ultimi ricordi, le ultime emozioni, adesso nessuno può azzardarsi a disturbarle, rovinarle e umiliarle, stracciandomele. Ecco il vantaggio nel trovarmi qui, in piedi contro la morte, o meglio contro la mia stessa vita; ecco il vantaggio: nessuno almeno qui e, in questo momento, può rovinare i miei pensieri. Sono libero, solo, consapevole che tra un po’ non ci sarò più e per questo mi sento anche più leggero. Voglio godere degli ultimi secondi che mi rimangono ma voglio farlo a modo mio.

I miei pensieri non sono mai stati liberi come in questo momento ed io voglio godere proprio di questo. Riesco a riflettere; sembra strano? Eppure è così, rifletto. Rifletto sospeso su di un cornicione e sorrido. Rifletto sulla vita passata, su quella presente e sulla scelta di stroncarla; ora sono lucido, io che lucido non lo sono mai stato da vent’anni a questa parte. Nessuno ha mai notato il mio perenne stato di alterazione alcolica, nessuno s’è mai accorto di niente, nessuno, nemmeno le persone a me più vicine, ero bravo davvero, ero diventato un vero maestro di bugie, un ottimo attore ma soprattutto un eccellente equilibrista. Ho sempre tenuto in equilibrio le mie gambe traballanti ed insieme ad esse, la mia vita, appesantita e squilibrata da troppe zavorre; tante volte sono stato lì lì per cadere ma la pianta dei miei due piedi è stata davvero troppo forte ed indurita da troppi calli per lasciarmi cadere, per tradirmi. I piedi mi hanno sorretto quando ero ubriaco, ma adesso che sono lucido, lasceranno la presa dal terreno per spiccare il volo; cadere, no mai!

Lasciarsi cadere, perché l’ho deciso io. Vigliacco, disperato, pazzo, qualsiasi aggettivo mi venga spiaccicato addosso, non avrà alcun effetto dopo, non diventerà un rumore martellante nelle mie orecchie, un ritornello che mi farà sentire in colpa ogni volta, dopo non avrà alcun significato, adesso lo stornello “Mario il vigliacco, Mario il pazzo”, mi fa solo ridere, mi scivola addosso come acqua, mi sfiora come vento, fa male come coccole. Ho visto ciò che mi capitava di vivere con gli occhi appannati dall’alcol, ho camminato su persone e calpestato sentimenti con le mie gambe instabili, ho parlato e detto tante bugie con il mio alito pesante; ho anche visto, però, con gli occhi limpidi, tramonti bellissimi, camminato a piedi scalzi, su prati erbosi con affianco volti che mi hanno amato e che ho amato e parlato con l’alito pulito e con la bocca del cuore ai miei figli. Momenti belli, si, ma troppo piccoli, momenti troppo brevi; certo, sono solo momenti, altrimenti non si chiamerebbero così! No? Il restante è l’eternità; ma è davvero troppo lunga e faticosa da sopportare. Ho rovinato il piccolo e il breve per lasciarmi succhiare dall’eternità. Da quel momento in poi la cattiveria ha assalito il mio animo, non c’erano più tramonti, prati erbosi da poterci camminare scalzi, non più chiacchierate con i miei figli e, ormai la vista era solo appannata, non vedevo veramente niente; o meglio vedevo ciò che volevo vedere, ma quelle visioni, di certo, non erano rassicuranti. I pensieri erano diventati per me una vera ossessione, tutti ci sbirciavano dentro, non ero più libero di pensare, ed è stato proprio allora, che è avvenuto il crollo totale. L’alcol mi aiuta, mi aiutava a capire, a pensare, nascondendomi dagli sguardi altrui, ma spesso non riuscivo a mimetizzarmi completamente e allora bevevo, bevevo e bevevo, fino al buio più totale e allora si, che nessuno poteva scorgere più il mio viso, e allora si, che potevo finalmente pensare. Guarda lì quel piccione, non sembra affatto sorpreso di trovarmi qui, non è spaventato dalla mia presenza, non è volato via, è lì che, con tutta tranquillità, becca sul cornicione, qualche briciola caduta. Che bella sensazione, io ed il piccione sullo stesso cornicione a pensare, lui come sopravvivere, io come morire. Forse è proprio questo che ci accomuna, è questo che ci rende simili, sarà per questo che non è spaventato. Che bello! Non è spaventato. Ricordo che per un periodo i volti che circondavano il mio controllandolo, erano terrorizzati; non capivo il perché, solo che avevano paura di starmi accanto, ma ci stavano per tenermi d’occhio. E’ successo durante una delle mie solite crisi d’astinenza, mi è stato raccontato dopo, dai medici, che dicevo cose insensate, parlavo di morte, di sangue e omicidi. Sarà stato per questo che nessuno voleva rimanere solo con me? Beh! Penso proprio di sì. Farneticavo, vedevo cose che non c’erano, ero violento con tutti e non distinguevo i parenti dagli estranei, per me tutti dovevano scomparire, morire, erano invasori di me. Parlavo di cose strane, mi dicevano, di pensieri repressi, di spie all’interno del mio cervello, intrusi che non chiedevano altro che leggermi dentro. Poi, una mattina mi hanno trovato su un cornicione, come adesso, come oggi, solo che allora non ero in me, non ricordo nulla dei pensieri di quel momento, so solo che quello che dicevo non era poi tanto insensato, almeno per me. Su quel cornicione, cercavo solo la libertà che non ho mai sentito di possedere, la libertà di pensiero. L’aria mi accarezza la pelle, il venticello sfiora e coccola i pensieri che come una nuvoletta di fumo, si dissolvono sopra la mia testa; ah! Che sensazione piacevole. L’ultima volta che ho sentito la pelle alzare i peli su tutto il corpo è stato quando mio figlio, piccolissimo, si è addormentato tra le mie braccia; prima che quelle stesse braccia iniziassero a stritolare gli affetti dormendo. Domino la città, nessuno bada ai miei pensieri o se qualcuno lo fa, questa volta ha almeno la decenza di restare in silenzio.

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L’altra notte sono tornate a visitarmi, loro, le vocine diaboliche provenienti dalla cantina, martellanti come sempre o forse inquietanti più del solito. Prima non era così, prima riuscivo a tenerle a bada, poi con il tempo ho ceduto alla loro cantilena e come ipnotizzato, giorno dopo giorno ho lasciato che prendessero il sopravvento su di me. Vogliono che faccia delle cose per loro. Sono martellanti, alla fine come faccio a rifiutare? Non posso! Ah! Ma che bella questa giornata. Ciao piccione. Il sole alle mie spalle mi offre l’opportunità di guardare bene cosa ho davanti: palazzi, palazzi e ancora palazzi. Se sposto lo sguardo in basso, un capogiro dettato dalle vertigini, offusca la vista e le piccole sagome che intravedo, si mescolano fra di loro. Sì, nuovamente la mente offuscata ed è come quando bevo che ho l’impressione di camminare su una fune, che ad un passo dopo l’altro, cede sempre di più logorandosi. L’effetto dura pochi secondi, il tempo di addirizzare lo sguardo davanti a me. Ecco, adesso sono padrone di me stesso, posso gestire le paure, ansie, angosce e controllare il mio malessere. Non, come quando mamma mi chiudeva in cantina perché avevo disobbedito, allora no che non controllavo la paura che mi assaliva come un cane con la bava alla bocca desideroso solo di sbranarmi. La cantina. Da lì provengono le vocine diaboliche, è da lì che mi assillano, intromettendosi nella mia testa fino a farmi impazzire. Ora hanno smesso. Non sono più prigioniero, adesso. Sono sul cornicione a pensare e libero dalle vocine. Non vi sento, ah, ah, ah! Ma poi, l’ultima volta che le ho sentite, ieri sera, hanno proprio esagerato. . . Mia moglie. Uccidere mia moglie? Ma dico, come vi è venuta un’idea simile?”

Passeggiando per una strada qualsiasi, un giorno qualsiasi, dal cornicione di un palazzo qualsiasi, di come ce ne sono tanti qui a Roma, stile rinascimentale, scorgo una figura, non riesco a distinguere bene di cosa si tratti, ho il sole che mi arriva diritto negli occhi. Distolgo lo sguardo, cerco di riprendere la vista che invece mi offre un black out completo, aspetto allora con pazienza ed ecco, finalmente affioro. E’ un uomo? O mio Dio, è un uomo! Un uomo in piedi sul cornicione, ma che fa? E’ pronto a buttarsi di sotto! Resto lì impietrita, lo guardo in silenzio. Lui allarga le braccia e si lascia cadere come un uccello, con estrema leggerezza. Perché non ho urlato? Non so spiegare il mio silenzio; è come se non volessi invadere uno spazio che non mi appartiene, un’area troppo intima da poter sporcare con qualche parola. Il giorno dopo leggo: “Uomo strangola la moglie e si uccide gettandosi dal sesto piano”. Controllo il nome della strada, il civico del palazzo e mi accorgo che quella di ieri non è più per me una strada qualsiasi, né un palazzo qualsiasi, ma è lo spazio mentale di Mario.

 

Opera premiata per la sezione narrativa al concorso “Città di Melegnano 2005”

 

Dott.ssa Graziella Ceccarelli - psicologa

 


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Tags: suicidio pensieri

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