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Archetipo

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“La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell'universo, e ciò che accade nel macrocosmo accade egualmente negli infinitesimi e più soggettivi recessi dell'anima.” Carl Gustave Jung

archetipo.junghianoIl termine archetipo, concetto chiave e fondamentale della teoria analitica junghiana, fa riferimento alle forme, modelli, figure, immagini primordiali dell’esperienza universale dell’umanità, presenti nell’inconscio collettivo, come sedimento delle esperienze antropologiche e al contempo forma strutturante delle stesse.

Una definizione così complessa e ampia necessita di alcuni approfondimenti sulle modalità di pensiero junghiane, volte a comprendere al meglio quali siano stati i passaggi che hanno portato a tale teorizzazione.

I primi contatti che Carl Gustave Jung ebbe con Freud risalgono al 1907, successivamente alla lettura della “Psicologia della dementia praecox” da parte di Freud; questa data fu significativa in quanto segnò l’inizio di uno stimolante e fecondo sodalizio intellettuale i cui effetti si protrassero oltre la storica rottura del loro rapporto.

Mentre Freud, come abitualmente gli capitava con tutti coloro che si accostavano con interesse alle sue teorie considerò Jung come un discepolo, anzi come il discepolo prediletto a cui affidare un giorno la custodia e la guida del movimento psicoanalitico, Jung considerava piuttosto il loro rapporto come un libero scambio di idee, una collaborazione che ammettesse anche le diversità.

Fu infatti nel 1910 che Jung inizio a manifestare e sostenere una sua visione personale dei fondamenti teorici della psicoanalisi che implicava alcune sostanziali divergenze rispetto a Freud.

Il punto di partenza e divergenza di Jung è l’allargamento del concetto di libido; Freud l’aveva concepita come “il corrispondente psichico dell’energia fisica” e connotata come l’espressione stessa del lato sessuale della pulsione, definendola quindi nei termini quantitativi dell’economia psichica.

Per Jung al contrario, la libido può essere intesa come energia psichica generale presente in tutti gli aspetti della personalità.

La libido junghiana costituisce infatti l’origine delle manifestazioni culturali e psicologiche del soggetto nella loro totalità; si tratta di un livello che richiama i concetti junghiani di “simbolo” e “trasformazione”.

La libido è infatti vista da Jung come un elemento fluido e mobile, capace di spostarsi, di differenziarsi, di costruire legami simbolici, rimandi, analogie fra esperienze in apparenza distanti e diverse, di creare dei nessi di significato al di là delle distinzioni concettuali della coscienza.

Nell’opera “Simboli della trasformazione” Jung propone la distinzione tra due differenti modalità di espressione della libido, a seconda se questa venga rivolta al mondo esterno o che si rivolga all’interno del soggetto.

Le modalità estrovertita ed introvertita della libido, compresenti nello stesso soggetto, si realizzano rispettivamente secondo Jung attraverso due stili di pensiero: il pensiero logico o indirizzato e il pensiero non indirizzato, ovvero il sognare o fantasticare.

La prima forma di pensiero appare come un ragionamento serrato, espresso in forma verbale, “che si adatta alla realtà e attraverso il quale, in altri termini, imitiamo la successione delle cose obiettive e reali, in modo che le immagini sfilano nella nostra mente nel medesimo ordine rigorosamente causale degli avvenimenti che si verificano fuori di essa”.

Si presenta pertanto come una forma di pensiero tipicamente Occidentale, che è alla base della scienza, della tecnica e della comunicazione verbale.

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Il pensare non indirizzato è invece “puramente associativo”, è cioè “un pensare che non comporta fatica, si distacca dalla realtà per perdersi in fantasie concernenti il passato e il futuro”.

Queste modalità organizzative del pensiero portano Jung a riconoscere nel processo psichico una dinamica progettuale; per descrivere la vita psichica, attinge infatti al modello energetico mutuato in parte dalla fisica secondo il quale la psiche è un generatore autonomo di energia in virtù del dialogo interno tra due poli opposti: la coscienza e l’inconscio.

Jung considera l’inconscio un sistema vivo, e in tal modo non opera mai una divisione netta tra conscio e inconscio, in quanto ritiene che queste due componenti dialoghino in maniera perenne e attraverso le quali scaturisce la trasformazione dell’energia (il tono affettivo si trasforma in valutazione, che a sua volta si trasforma in sentimento).

Da ciò si deduce che può esistere una coscienza inconscia (oggetto) e un inconscio cosciente (soggetto);in questa concezione è evidente l’influenza di una certa parte del pensiero romantico e della filosofia della natura che induce Jung a vedere nell’inconscio un’innata e autonoma capacità di creare immagini, analogie, simboli che non sono irrazionali produzioni del soggetto, bensì espressione di intuizioni inconsce che la coscienza, governata dai suoi progetti, esclude dal proprio campo visivo.

Tale dialogicità e separazione funzionano, secondo Jung, attraverso quelle rappresentazioni simboliche che giacciono nel cosiddetto “inconscio collettivo” che contiene le immagini primordiali appartenenti al patrimonio universale della mitologia e a cui tutte le culture hanno attinto per descrivere e dare significato alle esperienze cruciali e problematiche dell’esistenza soggettiva e sociale.

Il simbolo è un elemento centrale delle teorizzazioni Junghiane, in quanto è il dispositivo che permette l’esplicarsi generale dell’energia psichica; secondo Jung la psiche stessa, nella sua globalità, parla simbolicamente.

La funzione simbolica che Jung chiama “funzione trascendente” agisce anzitutto a livello della genesi della soggettività: l’individuo nasce immerso nei miti collettivi e negli stereotipi culturali ed è segnato a fondo dall’immaginario sociale in cui vive.

Questo legame con l’insieme dei valori che ci preesistono e predeterminano segna il nostro sviluppo psichico; la stessa genesi della nevrosi, secondo Jung, è da ricercare in una mancata differenziazione del soggetto dal collettivo.

Uno dei rischi più salienti è rappresentato infatti dalla possibilità di identificazione tra soggetto e collettività.

È proprio attraverso queste riflessioni che si inseriscono le ipotesi relative all’inconscio collettivo e al concetto di archetipo.

Secondo Jung, l’individuo che ricerca a livello cosciente l’espressione più completa della propria personalità, e che dunque tenta di differenziarsi dal collettivo senza isolarsi, deve lottare anche contro un lato inconscio dominato da immagine arcaiche, impulsi apparentemente sepolti ma in realtà attivi: gli archetipi.

Questi rappresentano le figure “originarie” ed ereditarie che strutturano il nostro inconscio.

Gli archetipi sarebbero quindi le forme di rappresentazione più antiche e più generali dell’umanità e vanno intesi come traccia delle infinite esperienze delle generazioni passati.

Le tipiche espressioni degli archetipi sono naturalmente i miti, visti nelle loro infinite configurazioni e trasformazioni: elementi che riemergono in forma di simboli, sia nei deliri psicotici sia più comunemente nel materiale onirico o nell’immaginario collettivo-culturale di cui sono intessuti i sistemi sociali.

Per chiarezza vengono riportati alcuni temi archetipici; l’archetipo dell’Eroe è caratterizzato da una vicenda che ricorre in vari contesti mitico-religiosi: l’eroe è infatti colui che sconfigge il potere delle tenebre e riporta alla luce il tesoro che queste custodiscono.

L’archetipo della Madre che ha una connotazione ambivalente: se l’aspetto negativo dell’archetipo materno è il suo potere divoratore, l’aspetto positivo è costituito dalla fecondità, dal potenziale creativo e così via.

L’archetipo del Vecchio Saggio si manifesta in varianti immaginative alludendo sia alla saggezza che, all’aspetto negativo, ossia la rigidità.

Jung sottolinea come gli archetipi siano caratterizzati dalla compresenza di aspetti positivi e negativi e che l’aspetto negativo è maggiormente preponderante quando la coscienza è posseduta dall’archetipo, quando lo agisce senza la consapevolezza di essere in suo potere.

Se il soggetto è quindi consapevole del tema archetipico che domina in quel momento le sue rappresentazioni e comportamenti, può trarne un utile materiale per un allargamento della coscienza e della consapevolezza di sé attraverso gli aspetti sia positivi che negativi dell’archetipo.

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Questa teorizzazione fornisce a Jung quel presupposto per ritenere che il simbolo, inteso come peculiare creatività dell’inconscio che consente di dar forma ad un nuovo progetto esistenziale, ha così una doppia funzione: quella di farci comprendere i presupposti inconsci e quella di alludere a differenti possibili modi di orientare la nostra coscienza, i nostri giudizi e i nostri atteggiamenti.

Pertanto l’ipotesi dell’esistenza di un inconscio collettivo dominato dagli archetipi getta una luce nuova sul significato delle nevrosi.

Il soggetto incapace di assorbire o di sintetizzare il materiale archetipico del proprio inconscio soffre la potenza degli archetipi sino ad esserne travolto, come accade nel caso di certi deliri in cui affiora un’incontrollata proliferazione simbolica di immagini e figure arcaiche.

La terapia junghiana mira in questo senso ad una costante ricerca di mediazione tra le varie forze che ingabbiano l’Io, ossia ad una sorta di sintesi tra elementi sociali, soggetto ed inconscio.

Lo scopo della terapia analitica è infatti proprio quello di liberare la libido bloccata e l’energia non differenziata.

 

 

Bibliografia

  • Concato G., (2006), Manuale di Psicologia Dinamica, AlefBet, Firenze
  • Dizionario di Scienze Psicologiche – Edizione Simone
  • Jung C.G., (1912-1915), Simboli della trasformazione, tr.it in Opere, Boringhieri, Torino, 1971, vol.3
  • Jung C.G., (1916), La struttura dell’inconscio, tr.it in Opere, Boringhieri, Torino, 1971, vol.7

 

A cura della Dottoressa Giorgia Lauro

 


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Tags: inconscio collettivo simbolo trasformazione archetipo Carl Gustave Jung libido pensiero logico pensiero non indirizzato

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